Finestre

Finestre sul Mondo: le trasformazioni attuali dei Paesi europei e non.

di Paolo Borioni

Ė di poche settimane la dichiarazione del Ministro di Stato svedese Magdalena Andersson per cui il 2% del bilancio pubblico sarà attribuito alla difesa, percentuale che occorre raggiungere “appena sarà praticamente possibile”. Si prevedono aumenti di spesa in tutti i settori decisivi: aeronautica, sommergibili e missili rivolti vero il baltico, oltre ovviamente che per ritornare su livelli di reclutamento elevati. L’incremento di spesa sarà dai 36 miliardi di SKK nel 2022 a 108, un livello non più raggiunti dagli anni 1960. Si parla di una “tassa sulla difesa”, probabilmente per oltre 40 miliardi. Quanto ci vorrà a raggiungere quei livelli ovvero quale sarà la data del “praticamente possibile”? Andersson, già ministra delle Finanze, proclama impegni precisi ma poi non fissa scadenze nonostante l’opposizione borghese esiga esattamente date cogenti. Sebbene l’opinione pubblica sembri orientata verso un maggiore impegno  militare senza più escludere una adesione alla NATO, in realtà il governo socialdemocratico cerca per quanto possibile di non definire date. La (c’è da dire assai felice) tradizione di neutralità svedese evidentemente pesa ancora, almeno nel senso di non escludere un momento forse non lontano in cui la suggestione di pericolo suscitata da Putin possa decrescere. In fondo ancora pochi mesi fa l’opinione pubblica era solo in minoranza favorevole ad aderire alla NATO. Retrocedendo, poi, di qualche anno, rilievi risalenti al 2010 indicavano una sicura maggioranza assoluta per la neutralità, e negli anni successivi la discesa di questo dato produceva un aumento degli indecisi piuttosto che dei favorevoli. 

Questo forse è almeno un motivo per cui gli altri nordici vedono confermata la propria percezione della politica svedese, ovvero un ambiente in cui “si parla intorno alle cose” piuttosto che esprimersi con nettezza. Un fattore che però potrebbe affrettare la decisione è la presenza di una notevole industria nazionale per gli armamenti. Bofors per le artiglierie, Saab per l’aviazione, e una cantieristica non enorme ma che riesce a coprire la domanda nazionale di sommergibili (vitale a contrastare le tradizionali violazioni russe nel baltico) rappresenta certo una motivazione ulteriore rispetto agli altri nordici vicini, invece da questo punto di vista non muniti. 

Infine, proprio negli ultimi giorni pare cresciuta la convergenza dei socialdemocratici con i principali rivali borghesi Moderaterna per rinforzare un’unità nazionale dietro al riarmo e alla collaborazione con la NATO. Fino a non escludere, per alcuni, una Grande Coalizione. Un’adesione all’alleanza occidentale, secondo gli analisti che abbiamo consultato, diverrà sempre più probabile in caso di accrescimento (reale o percepito) della minaccia russa, ma anche se la Finlandia seguirà i suoi vicini nell’ abbandono dello status di neutrale. I finlandesi, tradizionalmente ancora più convinti degli svedesi della propria neutralità, paiono oggi in maggioranza favorevoli alla NATO.

Rimangono tuttavia alcune contraddizioni di base: in un mercato del lavoro da sempre vicinissimo alla piena occupazione non sarà facile  trovare il personale e i tecnici per ampliare la produzione militare e l’alternativa dell’importazione massiccia non è altrettanto  allettante, com’è ovvio. Per tacere del personale militare. Magdalena Andersson del resto lo ha esplicitato: “E qui voglio usare una lingua chiara: più giovani dovranno essere richiamati al servizio militare”. Quest’ultimo era stato abolito nel 2010, come tappa significativa di un itinerario di disarmo intrapreso già in precedenza. Si valutavano ormai le minacce regionali residue ad un livello così modesto da premettere di abbassare, secondo alcuni calcoli, al 10% la dotazione di personale ed attrezzature militari. Ben presto però segnali contrari hanno portato ad invertire la rotta: le varie guerre più o meno  interne di Putin e soprattutto l’annessione della Crimea nel 2014.  Ciò, proprio quando la socialdemocrazia tornava al governo, dopo un record di otto anni all’opposizione, costrinse gli esecutivi a dichiarare che si sarebbe ricorso a crescenti spese per la difesa, benché poi senza vere conseguenze pratiche. In questa scarsa coerenza hanno più di tutto contato le remore, ormai interiorizzate anche dalla Socialdemocrazia al governo, di natura “ordoliberale”, ovvero inchiodate a regole fisse (particolarmente irragionevoli in Svezia) di avanzo di bilancio e commerciale. Così, soltanto nel 2020 il bilancio per la difesa è davvero di nuovo salito, segnatamente per predisporre esercitazioni e difesa nell’isola di Götland, posta strategicamente in mezzo al Baltico.  Ma ben altro si prepara oggi, ovvero nell’epoca in cui la Russia è valutata una minaccia e si comporta pienamente come tale, tanto che il 12 marzo un portavoce del ministero degli Esteri russo ha chiarito che un avvicinamento alla NATO di Finlandia e Svezia avrebbe conseguenze, sia Politiche sia militari (senza specificare la natura di queste ultime).

Riassumendo, la Svezia è un caso paradigmatico di come la nostra parte del mondo ha interpretato il post-guerra fredda: oscillando fra noncuranza, fiducia che tutto sarebbe stato risolto dalla espansione NATO e infine allarme dinanzi all’evoluzione nazionalista del governo di Mosca. Un tentativo (probabilmente in qualche modo proficuo) di prevenire queste oscillazioni occidentali e queste malefiche evoluzioni russe, accreditando il Cremlino di uno status di partner con cui negoziare e raggiungere un equilibrio davvero globale e davvero condiviso, non è stato mai compiuto. 

Dunque, i problemi di adattamento politico, nel senso sopratutto di demografico-produttivo, ad uno scenario del tutto nuovo di riarmo, pesano e vanno valutati più degli “abiti mentali” veri, presunti o attribuiti (direi come sempre nella storia). Più che “parlare intorno alle cose” gli svedesi hanno grandi ostacoli materiali da oltrepassare. E non possono, come già Danimarca e Norvegia stanno facendo, limitarsi semplicemente a immettere nuovo carburante in un macchinario militare NATO già predisposto. A Oslo e Copenaghen, infatti, ci si sta dedicando (oltre che ad incrementare anche qui cospicuamente gli stanziamenti militari, persino in deficit) ad aggiungere alla partecipazione NATO iniziative bilaterali di collaborazione con gli USA. Per la prima volta i soldati nordamericani avranno accesso al territorio e alle strutture danesi e norvegesi, cosa sempre esclusa in precedenza, assieme ad ogni presenza di armi nucleari e di basi prettamente americane (presenti per esempio in Germania ed Italia). Oltre a ciò, esiste una struttura militare condotta dai britannici, la Joint Expedicionary Force (Jef) cui aderiscono anche Norvegia, Finlandia, Estonia, Lituania, Paesi Bassi e Islanda, focalizzata soprattutto sulla sicurezza nel Baltico, Atlantico settentrionale e mari costeggianti la Norvegia, senza escludere missioni altrove. Al Jef, opportuno notare, partecipa anche la Svezia, decisione che si aggiunge alla progressiva usura della neutralità di Stoccolma. 

È proprio questa usura a suggerire anche riflessioni più importanti e di maggiore visuale storica. In passato, la non irrilevante industria militare svedese, oltre ad essere scevra da cooperazioni con potenze tradizionali, aveva costituito paradossalmente una precondizione della sua peculiare “libertà da alleanze”, la cui altra faccia era una proiezione politica attiva e molto progressiva nel mondo della guerra fredda. Nell’ambito di questa dottrina (come era stato confermato dai due conflitti mondiali) la Svezia utilizzava la forza militare per ulteriore garanzia di potersi mantenere fuori dai conflitti. Ciò avveniva aggiungendo (con un armamento che già durante la Seconda guerra mondiale era stato incrementato) un ulteriore fattore di dissuasione militare verso potenze contrapposte in un eventuale conflitto. Esse infatti si supponevano già impegnate allo spasimo a contendersi  zone più strategicamente importanti o di frontiera (come furono la Danimarca per conquistare alla Germania le fondamentali produzioni alimentari sottraendole all’impero britannico, la Norvegia per controllare appieno gli sbocchi sul mare del Nord e l’Artico, la Finlandia come zona di confine “cuscinetto” dei sovietici). Ne derivava un uso (forse controintuitivo, ma efficace) delle armi per un’ulteriore credibilità della neutralità svedese in ogni condizione ipotizzabile. Esso fu nei lunghi decenni della maggiore egemonia socialdemocratica capace di rendere più credibile la “libertà da alleanze”. Quest’ultima inoltre, come ogni vera politica estera, non era un’opzione puramente etica, ma serviva in modo eccellente l’interesse nazionale svedese, con dunque ragioni pragmatiche evidenti. Fra esse la capacità di prevenire tensioni, in generale e a proprio sfavore, ritenuta vitale per un paese impossibilitato, per dimensioni e collocazione, ad essere a sua volta potenza. Infatti, la credibilità come neutrale rendeva anche più efficace l’opera di distensione, d’impegno multilaterale nell’Onu, nonché di cooperazione internazionale (decisamente anti-imperialista) verso il sud decolonizzato del mondo. Sollevare quanti più paesi del sud del mondo dalla mera logica delle grandi potenze fu in questi decenni un obiettivo politico coerente con l’interesse nazionale svedese.

Prendendo in considerazione quanto invece avviene oggi, si comprenderà bene che si va disperdendo il potenziale storico positivo della “neutralità attiva” svedese, una risorsa che per funzionare come importante fattore di distensione, trattative e produzione di concetti preziosi per la “sicurezza condivisa” abbisognava di elementi ed esperienze pazientemente accumulati in due secoli di “neutralità pragmatica”. 

Anche rispetto agli armamenti di difesa, l’importante produzione militare nazionale era un tempo resa sostenibile anche mediante esportazioni. Queste però erano severamente disciplinate: nessun paese in guerra, oppure aggressivo o repressivo (come il Sud Africa dell’apartheid) poteva acquistare armi svedesi. Oggi l’invio in Ucraina dei dispositivi anticarro pansarskott (per quanto al di dentro dei limiti NATO relativi ad armi “di difesa”) indubbiamente rende inservibile e un altro pezzo rilevante della neutralità svedese. Si comprende che la Svezia non potrebbe più spendersi credibilmente per il disarmo come faceva un tempo, peraltro (altro elemento di interesse nazionale) acquisendo una statura globale ben superiore alla sua dimensione geografica e demografica. Alcuni giorni or sono Pierre Schori, già principale collaboratore di Olof Palme in politica estera, è intervenuto sul maggiore giornale svedese “Dagens Nyheter” proprio per criticare le attuali propensioni della politica di sicurezza svedese. Schori ha sottolineato che la “Commissione Palme” al principio degli anni 1980 aveva prodotto importanti soluzioni favorevoli ad una distensione fra i due blocchi contrapposti. Anche se ciò avvenne in un momento sfavorevole (l’Urss invadeva l’Afghanistan, mentre Reagan rilanciava la guerra fredda e l’economia americana con i deficit gemelli sospinti dal riarmo delle “Guerre Stellari”) il concetto di “sicurezza condivisa” fu poi importante nelle evoluzioni positive della seconda parte del decennio. Secondo questo concetto nessuna vera sicurezza poteva davvero derivare dal semplice equilibrio di potenza. E tantomeno dall’espansione della sicurezza di una sola delle parti, in Europa o in Medio Oriente, come quella (molteplicemente inefficace) intrapresa da NATO e Usa in questi decenni. Occorreva trattare e raggiungere una sicurezza egualmente certa e affidabile per i principali interessati. Ed occorrevano accordi di disarmo, che infatti consentirono poi a Reagan di cambiare modo di sviluppo e, di riflesso, facilitarono all’interno dell’Urss, in declino e in difficoltà, l’emersione d’una guida politica collaborativa, alla Gorbachev, anziché una reazione disperata.

In sostanza, senza la Commissione Palme, e senza la lungamente accumulata credibilità storica della neutralità attiva socialdemocratica alle sue spalle, il mondo avrebbe avuto una via d’uscita in meno. La graduale, e ormai totale, scomparsa di questa eredità svedese conferma che oggi le risorse della convivenza pacifica stanno diminuendo proprio mentre esplode la guerra in Europa. Diminuisce il pluralismo delle posizioni nell’arena internazionale, e inevitabilmente si compattano i fronti presidiati, anche nei dibattiti pubblici interni, sempre più da ideologi travestiti da esperti. Invece prolifera, pur con diverse responsabilità e gravità, il ricorso di tutti i paesi ai depositi ideali meno collaborativi e più aggressivi.

 

di Nadan Petrovic, Università degli studi di Roma “La Sapienza”

Le guerre e gli esodi dei rifugiati che inevitabilmente conseguono ci trovano sempre impreparati, a maggior ragione se questi avvengono in un paese europeo. Eppure, il sistema internazionale di protezione di rifugiati nasce proprio sul suolo europeo per curare una delle principali conseguenze della Prima guerra mondale vale a dire il fenomeno dei rifugiati provenienti in primo luogo proprio dalle zone dell’attuale Ucraina. Infatti, mentre sul fronte occidentale della Grande Guerra le linee di combattimento rimassero a lungo pressoché invariate con, di conseguenza, un minor impatto sulle popolazioni civili, sul fronte orientale, l’esodo di milioni dei rifugiati fu una delle dirette conseguenze delle attività belliche (in particolare in alcune zone quali ad esempio la c.d. Galizia). Già nell’estate - autunno del 1915, il numero di rifugiati ammontava ad almeno 3,3 milioni di persone per arrivare nel 1917 – alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre - ad oltre 6 milioni. Secondo le testimonianze dell’epoca i rifugiati rappresentavano il “15 percento della popolazione di Nizhnij Novgorod e quasi il 25 percento di quella di Ekaterinoslav e Pskov. Quasi il 30% degli abitanti di Samara erano rifugiati”.

Tali eventi, amplificati come detto dalle conseguenze della Rivoluzione d’Ottobre, ma anche dagli accordi di pace successivi al conflitto introdussero cambiamenti geopolitici di enormi proporzioni (“I tre imperi europei sono crollati, erano nati quattordici nuovi Stati, si erano aggiunti undici mila chilometri di nuove frontiere esterne in Europea”), portano nei primi anni Venti il continente europeo a sperimentare una crisi di rifugiati senza precedenti, tale da rendere vani i tentativi dei singoli stati (europei) a risolverla e costringerli a dover chiedere aiuto agli organismi internazionali.  Tale ricorso portò alla creazione dell’Alto Commissariato della Società delle nazioni per i rifugiati – chiamato, inizialmente Alto Commissariato della Società delle nazioni per i rifugiati russi - e la definizione delle prime convenzioni internazionali di tutela dei rifugiati.

Anche le conseguenze della Seconda guerra mondiale furono simili nelle manifestazioni ed ancora maggiori nelle dimensioni. Alla fine della guerra, infatti, decine di milioni di rifugiati - i sopravvissuti allo Shoah, gli appartenenti alla minoranza etniche, i cittadini dell’Est europeo che scappavano dai paesi dietro la cortina da ferro – si riversarono nell’Europa occidentale in cerca di protezione. Come già accaduto nel primo dopoguerra, per fare fronte alla nuova crisi, i paesi europei dovettero ricorrere all’aiuto internazionale (erogato prima tramite UNRRA-United Nations Relief and Rehabilitation Organization, IRO-International Refugee organization e successivamente tramite ACNUR – Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), in un contesto che portò, altresì, all’adozione di uno strumento internazionale di tutela dei rifugiati importantissimo: la Convenzione di Ginevra sullo status di Rifugiato del 1951. La Convenzione che prevedeva peraltro la possibilità di essere ratificata da parte degli Stati membri mediante apposizione della la c.d.  “riserva geografica” ovvero riservandosi gli stessi Stati di riconoscere lo status di rifugiato “ai soli individui di provenienza europea”. 

La dimensione europea del fenomeno cambiò radicalmente solo in seguito al processo di decolonizzazione che a partire dagli anni Cinquanta, dopo che tanti conflitti internazionali ed interni (anche per “interposta persona”), fecero esplodere le gigantesche crisi dei rifugiati negli altri continenti, in particolare in quello africano ed in quello asiatico. In queste nuove circostanze, il continente europeo si cullò nell’idea di aver archiviato per sempre il fenomeno di rifugiati (difatti l’attenzione maggiore delle politiche comunitarie nel settore dell’immigrazione e l’asilo degli anni Ottanta fu dedicato al tema di contrasto delle domande di asilo “strumentali” anziché alla promozione di politiche d’integrazione).

Lo spartiacque in tal senso fu rappresentato dalla guerra in ex Jugoslavia, che oltre a riportare dopo quaranta cinque anni un conflitto armato, peraltro violentissimo, in Europa, produsse milioni di rifugiati. Non è un caso, infatti, che lo strumento giuridico con il quale l’Unione Europea si appresta ad accogliere rifugiati ucraini – la c.d. Direttiva sulla protezione “temporanea” del 2001 - sia stata elaborata e adottata a seguito della guerra in Bosnia Erzegovina (1992-1995) ed in Kosovo (1998-1999).   

Un ultimo cenno alla peculiarità nostrana. Nell’immediato post Seconda guerra mondiale, l’Italia fu una delle realtà maggiormente esposte al fenomeno dei rifugiati. Forse proprio per questo il nostro Paese nel 1954 fece la scelta - del tutto peculiare per le democrazie occidentali - di ratificare la già menzionata Convenzione di Ginevra sullo status del rifugiato del 1951, apponendo la già menzionata “riserva geografica”.

Di conseguenza nel periodo dalla ratifica della Convenzione nel 1954 a tutto il 1989 furono presentate in Italia solo 188.188 domande d’asilo: la maggiore pressione sul sistema d’asilo si registrò infatti, soltanto in occasione dei vari tentativi di rivolta dei paesi sotto il dominio sovietico, ed in particolare della rivolta ungherese del 1956, la cosiddetta “primavera di Praga” o del colpo di Stato in Polonia a seguito delle manifestazioni del sindacato Solidarnosz. Per il ritiro della “riserva geografica” si sarebbe dovuto, infatti, aspettare il mutamento dello scenario politico internazionale della fine degli anni Ottanta, caratterizzato dalla caduta del Muro di Berlino da un lato, e dall’avvio del processo di armonizzazione delle politiche europee in materia di immigrazione e asilo, dall’altro.  La “riserva geografica” venne infatti abolita solo con la c.d. legge Martelli nel 1990; il fatto quest’ultimo, che nel contesto di un sempre più crescente flusso globale delle persone in fuga sia da persecuzioni individuali che da situazioni di violenza generalizzata portò ad una sensibile e pressoché costante crescita delle richieste d’asilo anche nel nostro Paese, iscrivendo l’Italia – in particolare nell’ultimo decennio - tra i Paesi maggiormente esposti ai flussi per richieste di protezione internazionale tra i paesi industrializzati.

Nonostante così repentino e radicale cambio dello scenario, nel dispositivo nazionale d’asilo permangono a tutt’oggi diverse criticità strutturali - dovute, a parere dell’Autore, proprio alla particolare evoluzione esposta sopra – che rischiano di rendere molto problematica l’accoglienza dei rifugiati provenienti dall’Ucraina. Le criticità che possono essere sintetizzate, da un lato, nell’ estrema debolezza di governance nazionale del settore e, dall’altro nella pressoché totale assenza di politiche d’integrazione (a favore di quelle generiche “di prima accoglienza”, che di norma non portano gli accolti a una vera inclusione nonostante l’esborso considerevole di denaro pubblico).

Difatti, la scelta a non trattare – fino a tutto il 1989 - le domande d‘asilo dei richiedenti non europei portò non solo al delinearsi, per lunghissimo arco temporale di due distinte categorie di rifugiati: i rifugiati de iure o “sotto Convenzione” e i rifugiati de facto o “sotto mandato dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati” ma a due status molto diversi sotto il profilo assistenziale e sociale. A seconda che si tratti, rispettivamente, di rifugiati europei o extraeuropei, le domande d’asilo erano inviate al Ministero dell’Interno (alla c.d. Commissione paritetica di eleggibilità) oppure all’Ufficio dell’ACNUR in Italia (aperto in Italia il 15 aprile 1952 prima ancora della ratifica della Convenzione di Ginevra da parte dello Stato italiano). L’esito positivo del procedimento per quanto riguardava i “rifugiati europei” si concludeva con una dichiarazione di “eleggibilità” che, oltre a certificare il riconoscimento dello status di rifugiato, permetteva agli stessi di fruire del diritto al soggiorno e al lavoro, equiparandoli peraltro dal punto di vista assistenziale ai cittadini italiani. Per i rifugiati extraeuropei invece l’eventuale riconoscimento di status di rifugiato da parte dell’ACNUR (che aveva il potere di decretare la qualifica di “rifugiato sotto mandato”) non implicava il riconoscimento di alcun diritto da parte dello Stato italiano, che si limitava a rilasciare al titolare un permesso di soggiorno provvisorio “in attesa di emigrazione” (con il quale veniva preclusa, tra l’altro, ogni possibilità di svolgere attività lavorativa), costringendo quindi i “titolari non europei” a proseguire il loro viaggio. Di conseguenza, mentre agli altri paesi veniva delegato il compito di predisporre una protezione (ovvero integrazione) duratura, per quasi quarant’anni l’Italia ricopre prevalentemente il ruolo di Paese di “prima accoglienza” (offerta – fino a tutto il 1989 - in soli tre centri di accoglienza presenti sul territorio nazionale). Anche in seguito, sebbene il dispositivo di accoglienza venisse notevolmente rafforzato a partire dagli anni Duemila – al fine di fare fronte alla crescita delle domande d’asilo - la sua impostazione generale continuava (e continua a tutt’oggi) ad essere improntata alla “prima accoglienza” anziché alle politiche d’inclusione e di integrazione. Difatti, gli interventi del settore continuano a mancare di una strategia e di un approccio “olistico” al fenomeno, con il rischio di avere come risultato solo la costante necessità dell’aumento dei posti in accoglienza e/o un semplice protrarsi del periodo di permanenza nei centri. Quale risultato, già ora, molti rifugiati, pur muniti di un permesso di soggiorno di validità pluriannuale, dopo anni di accoglienza, finiscono in situazioni di grave emarginazione sociale vivendo in stabili occupati, stazioni ferroviarie ed altro.

Ciò anche a causa dell’estrema debolezza del sistema di governance nazionale. Difatti, sebbene lo Stato italiano si sia assunto gradualmente la  piena responsabilità della valutazione delle domande d’asilo (prima tramite la c.d. Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato e, successivamente tramite le c.d. Commissioni territoriali) e, dell’assistenza dei rifugiati (subentrando il Ministero dell’Interno - prima tramite la c.d. AAI Amministrazione Aiuti internazionali e successivamente tramite la Direzione Generale dei servizi civili e, successivamente e il Dipartimento Libertà civili e l’Immigrazione - in toto al ruolo svolto precedentemente dagli organismi internazionali quali UNRRA, IRO e specialmente ACNUR/UNHCR) nel nostro Paese continuano a mancare (ad eccezione di due brevi esperienze del c.d. Ministero dell’Integrazione, istituiti dai Governi Monti e Letta), sia i dicasteri con il mandato specifico in relazione alle politiche d’integrazione, sia le agenzie nazionali in grado di governare gli aspetti complessi gestionali del fenomeno dell’asilo e dell’accoglienza (sul modello della tedesca BAMF). 

Peraltro, per tornare al precedente dell’esodo dalla “ex Jugoslavia”, anche allora, per colmare le mancanze dell’azione governativa vennero avviate molte iniziative spontanee d’accoglienza a favore dei rifugiati, organizzate nella maggior parte dei casi da associazioni e gruppi di sostegno informali. Si trattò di iniziative spontanee e non coordinate realizzate con un grande slancio volontaristico che cercarono di far fronte, nell’immediato, all’emergenza. Tuttavia, ben presto si capì che occorreva sia rendere gli interventi di accoglienza propedeutici all’integrazione - che infatti avvenne con successo e anche velocemente - sia prevedere forme di efficiente coordinamento nazionale. Modello questo ripetutosi, sebbene in un arco tempo più breve, con l’individuazione di una struttura commissariale appositamente dedicata ed il coinvolgimento del sistema delle Regioni nel contesto della c.d. Emergenza Nord Africa nel 2011. 

Di conseguenza, dunque, le attese dimensioni dell’esodo dell’Ucraina, unitamente al fatto che la permanenza dei rifugiati nel nostro Paese verosimilmente non sarà di breve durata, richiedono di predisporre sin da subito interventi che vanno ben oltre delle semplici iniziative di solidarietà e di ”prima accoglienza”) e di individuare sin da subito una struttura centrale avente i compiti di coordinamento delle complessive attività in materia. In caso contrario, rischiamo di vedere letteralmente “travolto” il nostro, fin troppo fragile, sistema nazionale d’asilo.

[pubblicato il 09/03/2022]

di Paolo Borioni

Se ci astraiamo per un momento dalla corsa italiana per il Quirinale, e ci dedichiamo alla Germania, possiamo acquisire qualche elemento di riflessione sulle difficoltà attuali delle maggiori culture politiche europee.

Questo perché in Germania, a differenza che in Italia, esse ancora esistono e perché ne esistono i partiti di riferimento. Ed esistono in un paese-guida, non periferico o declinante, ergo non sono residuali come alcuni teorici (o solo imprenditori?) del nostro nuovismo hanno presuntuosamente pensato.

Socialdemocratici, cristiano-democratici e liberali sono stati presenti in tutti i governi del nuovo millennio, ma questo però non impedisce che la principale cultura politica nuova, l’ambientalismo, divenga in Germania la più grande d’Europa, oggi al governo con due ministeri decisivi. Mentre noi,  da 30 anni (quindi è una tendenza recente, non un destino storico), pur essendo patria di tutti i nuovismi, invece non abbiamo la novità politico-ideologica di maggior rilievo: l’ambientalismo. Forse il punto è che, se “il nuovo” è un’attività da imprenditori del marketing o della comunicazione (con seguito professionale di guitti), in realtà nessun ragionamento vero sull’innovazione può sopravvivere. Mentre una dialettica seria fra continuità e discontinuità è sempre possibile laddove ambedue sono rappresentate da culture politiche che, essendo appunto storiche, hanno la profondità per tematizzare esattamente il rapporto sempre complesso fra radici strutturali e mutamento. 

Vediamo ora un caso di questa complessità.

Angela Merkel, per quanto decantata come la grande leader europea, dovrebbe probabilmente essere percepita come una statista assai meno di successo di quanto si dica, per esempio perché ha sottoutilizzate le possibilità di innovazione del proprio paese.

Due dati ce lo dicono: quelli elettorali e quelli del debito pubblico tedesco. Angela Merkel ha perso le ultime elezioni per motivi di lungo periodo, non perché non era candidata: quando ha disputato la sua prima elezione le 2005, la Cdu-CSU aveva il 35% circa dei voti. Nelle successive è sempre calata, tranne quando nel 2013, dopo una legislatura in coalizione coi liberali, ne cannibalizzò il voto, costringendo la Fdp ad un’inusuale espulsione dal Bundestag per non avere raggiunto la soglia di sbarramento del 5%. I veri grandi leader del passato, a parte che avevano percentuali ben maggiori (ma erano tempi diversi con solo tre partiti, non sei come sono oggi), mantenevano la quote elettorali assai più stabili: come fecero Adenauer, Erhard e i successori dal 1953 a tutti gli anni settanta. Con Kohl cominciò un calo (ma come detto dipendeva anche dal raddoppio dell’offerta politica capace di passare il 5%), che però con Merkel si è accentuato nettamente. Oggi la Cdu-CSU è ben sotto il 25%, e inferiore alla Spd: come era capitato solo altre due volte (1972 e 1998). Come sia avvenuta questa involuzione sarebbe complesso dirlo, ma limitandosi ad una spiegazione fondamentale potremmo appunto parlare di due incapacità: sia quella di innovare proporzionalmente rispetto a quelli che sono stati i potenziali (e alle necessità), sia quella di redistribuire equamente questi potenziali. Ora, tutti sanno che le potenzialità di competitività e bilancio tedesche sono elevatissime, ma per rendersi conto della occasione mancata da Frau Merkel potremmo rifarci a qualcosa che probabilmente sfugge ai più. In una ricerca interessante (GERMANY’S BENEFIT FROM THE GREEK CRISIS, Geraldine Dany, Reint E. Gropp, Helge Littke and Gregor von Schweinitz, IWH, 2015, ma ce ne sarebbero anche altre) si calcola che la “crisi greca” ha dal 2007 in poi prodotto la disponibilità di molti risparmiatori a pagare (anziché guadagnare) per detenere i titoli di stato tedeschi. Ciò perché in molti portafogli titoli si è valutato che almeno in parte l’investimento, dato il contesto insicuro, dovesse affluire verso “porti sicuri”, a costo di conferire allo Stato tedesco, al momento della liquidazione, una certa cifra per questa operazione. Questo fatto, aggiunto agli acquisti della BCE, che compra ovviamente anche titoli di paesi saldi finanziariamente (come altrimenti sperare nel consenso in seno al direttivo BCE?) ha reso, oltre al “prestito” realizzato con l’acquisto dei titoli, circa 100 miliardi di euro aggiuntivi fra 2007 e 2015. E ovviamente anche in seguito. Ora, chi ha governato tra il 2005 e il 2021 (Spd, Cdu-CSU e Fdp nel 2013) ha perso molti voti perché, con tutta evidenza, i potenziali enormi non sono stati utilizzati né per rimediare al forte stress sociale prodottosi in una Germania sempre più ineguale e precarizzata, né per innovare in senso “verde” o riqualificare PA, trasporti, sanità, come era evidentemente richiesto. I media nordici, che seguo costantemente, sono pieni di commenti che ironizzano sull’uso del fax per comunicare con la PA tedesca, o sul livello deludente di trasporti pubblici e aeroporti (a cominciare da Tegel, il più nuovo di Berlino). O sul ritardo cospicuo delle misure per il clima. Per non parlare di settori ampi del welfare. 

Come abbiamo visto, Merkel era stata in realtà sempre (benché moderatamente) punita per questo, e le elezioni del 2021 hanno solo sancito una punizione più inequivocabile. In un’altra circostanze potremo intrattenerci sulle ragioni ideologiche e strutturali di questa mediocrità, prospettiva e realizzativa. Oggi però ci limiteremo ad alcune considerazioni conclusive. 

La Spd si è salvata dal destino di Merkel e del suo sfortunato erede designato  Laschet, risalendo del 5% (benché solo dagli abissi del 20%) perché evidentemente è stata ritenuta (anche da ex elettori Cdu-CSU che l’hanno votata) in grado di funzionare più credibilmente in un mutamento di prospettiva. La Spd è stata chiamata (dati dei flussi alla mano) a  rappresentare l’ala più redistributiva in un’alleanza con l’innovazione (soprattutto verde) del partito ambientalista e quella di ammodernamento “borghese” rappresentata dalla Fdp (oltre che dalla Spd stessa, ovviamente).

Così, l’attuale esecutivo tedesco, sul quale sono leciti parecchi dubbi per altri versi, nondimeno rappresenta una mutamento espresso nel titolo del programma concordato: MEHR FORTSCHRITT WAGEN, “osare più progresso”, che riecheggia il certo più “rivoluzionario” “Mehr Demokrati Wagen” dei tempi di Willy Brandt.

Concludiamo tornando su un punto: non ci sono “nuovismi” a realizzarlo ma liberali, socialdemocratici e verdi. I primi due sono partiti nati nel XIX secolo ma del tutto capaci di aprirsi ad una crescita nettamente ambientalista, organizzata nel partito della grande questione ambientale, e (non deve suonare paradossale) per questo presente stabilmente nel panorama tedesco da almeno 45 anni. Se si fa un paragone sul punto bisogna constatare che il nostro partito più vecchio è la Lega, che ha circa 40 anni, mentre in gran parte le nostre forze politiche sono in realtà poco più che caduche liste elettorali, di cui cambiano le sigle ma quasi per nulla idee e candidati.  

Rimane il limite che individuiamo nella innovazione proposta dal governo del cancelliere Scholz. Le grandi innovazioni che propone hanno bisogno di un consenso popolare ampio che riuscirebbero ad ottenere solo se questo “osare progresso” fosse anche l’uscita da decenni di peggioramento evidente della qualità del lavoro. È vitale che specie la rivoluzione verde, la più cruciale  e profonda, debba associarsi ad una svolta di giustizia sociale, per non suscitare resistenze che le sarebbero letali. Ma questo nesso, per l’esecutivo di Berlino, non è affatto  un obbiettivo prioritario,  come lo era invece quando il motto del rinnovamento invece era “osare più democrazia”.

 

Nel nostro paese si è a lungo dibattuto su come stabilizzare il sistema politico, e specie gli esecutivi. Le soluzioni adottate sono state soprattutto incentrate su tentativi più o meno riusciti di importare sistemi bipolari con forti dosi di maggioritario. Invano si è tentato, però, di ottenere da queste riforme il “governo la sera stessa delle elezioni”, “il governo di legislatura” e la “fine del trasformismo”. Fra le evidenze di questo insuccesso possiamo addurre che la migrazione fra i poli e i gruppi parlamentari dei singoli eletti, quasi inesistente rarità nella “prima repubblica”, è decollata a livelli inarginabili. Con pregiudizio sia dei “poli”, sia dei governi, e dunque della stabilità. Forse un eccesso di politologia elettorale ha pregiudicato la corretta visione dei rimedi, fra cui il fatto che le riforme dovrebbero riguardare il funzionamento dei parlamenti più che la demonizzazione del sistema proporzionale. La protezione dei gruppi parlamentari eletti da una troppo facile costituzione di gruppi parlamentari non eletti, oltre che la “fiducia costruttiva”, permette al sistema tedesco lunghissime trattative fra i partiti, ben lungi dal “governo la sera stessa delle elezioni”, senza pregiudicare la stabilità. Ma esistono altre possibilità, come il cosiddetto “parlamentarismo negativo” in vigore nei paesi nordici. Di cosa si tratta? 

Per comprendere il PARLAMENTARISMO NEGATIVO NORDICO è utile questa frase del presidente del Riksdag svedese, Anders Norlen, che recentemente ha dichiarato risolta una crisi di governo determinatasi la settimana precedente con le seguenti parole:
“101 hanno votato sí, 173 hanno votato no, 75 non hanno votato. Poiché meno della metà del Riksdag ha votato no, è approvata la proposta di nominare Magdalena Andersson ministro di Stato di Svezia...”.
La dichiarazione ci può  apparire paradossale, poiché in apparente contrasto con il principio di maggioranza, ma ovviamente non è così. Piuttosto, il principio di maggioranza richiesto è quello della volontà di sfiduciare il governo, che palesemente a Stoccolma in questa recentissima occasione non si è manifestata.
In sostanza, dunque, il parlamentarismo negativo non richiede, per eleggere o confermare un governo, una maggioranza dei seggi o dei presenti in aula, ma che non vi sia una maggioranza contraria. Ad esempio, l’articolo 15 della costituzione danese del 1953 dichiara che è  decaduto quel primo ministro il quale riceve un voto di sfiducia della maggioranza del Folketing; ma non prescrive che debba esservi una maggioranza palesemente a favore. Questo, peraltro, ci dice che esistono varianti, anche interne ai paesi nordici. In Svezia per la sfiducia serve una pura e semplice maggioranza contraria dei seggi. In Danimarca, Finlandia e Norvegia invece occorre che tale maggioranza si esprima in connessione con una mozione di sfiducia, il che può rappresentare un dispositivo di stabilizzazione ulteriore. D’altra parte, gli svedesi adottano una regola riguardo alle scadenze elettorali molto rigida: le elezioni del Riksdag devono comunque svolgersi a scadenza prevista ogni quattro anni, anche se nessuna maggioranza parlamentare “non contraria” o favorevole venisse trovata. In sostanza, se il governo di Magdalena Andersson fosse stato abbattuto e si fosse ricorso alle urne, poi si sarebbe lo stesso votato di nuovo alla scadenza designata costituzionalmente, cioè nell’autunno del 2022. È un fatto che la eventualità di favorire una elezione poco utile (poco in grado di spostare davvero gli equilibri) e che quindi pochi elettori avrebbero capito, è  stato uno degli argomenti di molte deputate e deputati per giustificare il loro esprimersi “non contrari”. Da parte loro, i socialdemocratici di Magdalena Andersson hanno addotto lo stesso argomento per governare anche in queste condizioni proibitive.  Questi principi e procedure esprimono un’idea di democrazia parlamentare particolarmente flessibile e complessa, ma anche particolarmente integrale: il Riksdag, il Folketing o lo Storting, cioè, sono particolarmente “creativi” (in realtà sovrani) rispetto alla tipologia di governi proponibili: ce ne sono stati (benché più raramente che altrove) di maggioranza vera e propria, di quasi-maggioranza (cioè con partiti socialdemocratici vicini a disporne da soli, ma bisognosi per insediarsi o continuare a governare di partiti comunisti o post-comunisti “non contrari”, ovvero non disposti a votare insieme ai “borghesi”,). Ce ne sono stati anche di estrema minoranza, cosa a cui si avvicina, come abbiamo visto sopra, l’esecutivo socialdemocratico di Magdalena Andersson. Insomma: in Scandinavia è particolarmente chiaro che sono i parlamenti eletti a decidere sui governi, non il momento elettorale in quanto tale.
Si potrebbe continuare a lungo, ma limitiamoci ad alcune brevi considerazioni. Proprio poiché il momento elettorale è, più ancora che in altre democrazie funzionanti con il sistema proporzionale, nettamente la elezione del Parlamento, non del governo, emerge e si afferma il costume del riconoscimento del governo, e di una trattativa parlamentare relativamente “leale”. Ciò (ed è un paradosso solo apparente) deriva dal fatto che un governo è  legittimo (cioè ha la maggioranza della non-ostilità parlamentare) anche se è di gran lunga minoranza elettorale. 
Ne discende una  considerazione finale: pur se con una saggia soglia di sbarramento (del 2% in Danimarca, del 4% in Norvegia e Svezia), il momento elettorale, distintamente da quello parlamentare, serve a eleggere le rappresentanze sociali, ideologiche e di classe (storicamente: i ceti agrari o costieri nei partiti “di Centro” in Svezia e Norvegia, il lavoro dipendente sindacalizzato e operaio nella socialdemocrazia, le professioni e l’alta burocrazia civile e militare nei Conservatori) che poi trattano in Parlamento. Senza retorica delegittimante verso governi che sono “minoranza nel Paese”. Anche da questa importante premessa è discesa la costruzione di welfare avanzati, e di sistemi competitivi a bassa disuguaglianza: cioè riconoscere che, a prescindere dalla forza maggioritaria dei governi, in parlamento avviene un confronto di classe. Perciò è importante fornire a tale confronto i presupposti anche istituzionali, collocandolo all’interno della democrazia (anche quando è aspro) anziché  negarlo, o all’estremo opposto concepirlo come guerra di classe.
Ma qui andiamo forse  troppo oltre.  Limitiamoci semplicemente a comprendere che la stabilità può essere cercata ed ottenuta in modi diversi da quelli su cui ci siamo lungamente ed invero inefficacemente concentrati.

Paolo Borioni

Un ceto politico imbelle: incapace di trovare un accordo per eleggere la più alta carica dello Stato, si è ritrovato costretto ad arrendersi, ricorrendo alla figura carismatica del presidente uscente.

di Guido Melis
 
30 gennaio 2022
 

La rielezione di un riluttante Sergio Mattarella viene da lontano. Segna il fallimento della classe politica che è stata espressa, sin dalla fine degli anni Novanta, dagli attuali partiti. Partiti che forse sarebbe meglio chiamare per quello che sono stati e sono: aggregati casuali della post-politica, via via sempre meno orientati da valori generali e sempre più invece da ambizioni personali dei loro leader.

Siamo dunque all'atto finale di una degenerazione cominciata molti decenni fa, nella progressiva ritirata dei partiti di allora dal terreno della società sul quale erano storicamente nati e si erano consolidati. Il passaggio da quella stagione «eroica» del partito costola dello Stato, nel quale si insediavano (anzi che occupavano) e dal quale traevano il loro sostentamento e non solo nei termini del pur discutibile finanziamento pubblico. Un fenomeno che, naturalmente, si è manifestato gradualmente e in modo diverso a seconda dei partiti di allora: ma che in molti, già nel corso degli anni, Ottanta cogliemmo; e che, ancor più di noi – che scrivevamo sui giornali di provincia – colsero i nostri maestri.

Siamo all'atto finale di una degenerazione cominciata molti decenni fa, nella progressiva ritirata dei partiti di allora dal terreno della società sul quale erano nati

Una crisi, quella dei partiti, che esplose visibilmente con Tangentopoli, per poi passare attraverso il degrado morale del berlusconismo – un regime personale basato sul travolgimento delle incompatibilità tra interessi privati e pubblici – e, infine, culminare nel suicidio del ceto politico«nuovo» figliato da quelle stagioni storiche.

Si realizzano così oggi le fosche previsioni del passato: l'allarme accorato di Enrico Berlinguer per la caduta della tensione morale (chi può dimenticarlo?), il messaggio terribile di Aldo Moro dalla cella delle Brigate Rosse su ciò che sarebbe stato l'avvenire della Dc dopo la sua morte. Così come le parole profetiche di Craxi dal suo esilio tunisino: sì anche quelle, che pure allora in molti non percepimmo. Leader ognuno dei quali criticabile per gli errori compiuti, più o meno a seconda del giudizio politico che se ne può dare, ma accomunati nel sentimento di un precipitare storico degli eventi che preludeva a quanto oggi sta succedendo.

Non si tratta di un fenomeno solo italiano, ben inteso. Il declino è universale e basta guardare all'Europa e agli stessi Stati Uniti, per non dire poi della Russia, della Cina, dei Paesi dell'Africa dai quali ci si attendeva un tempo una nuova stagione di democrazia vitale e rigeneratrice. Da noi però la malattia si è espressa con una violenza assai maggiore che altrove, potendosi sviluppare (e questo è un problema storico che ci portiamo dietro da un secolo e mezzo almeno come Stato nazionale, e da assai più tempo come collettività) sul facile terreno della nostra fragilità istituzionale, della nostra vocazione antica al compromesso, nella nostra atavica assenza di senso dello Stato. In definitiva nella nostra solo apparente saldezza come comunità solidale e partecipe dei comuni destini.

L'Italia è stata fatta tardi e male, come sa chi ne ha studiato la storia, e lo si avverte, nonostante tante pagine virtuose anche nelle cronache contemporanee. Oggi, un ceto politico imbelle non riesce a trovare un accordo quale che sia per eleggere la più alta carica dello Stato ed è costretto ad arrendersi ricorrendo alla figura carismatica del presidente uscente, al quale nelle scorse ore, in un pellegrinaggio mortificante già visto all'epoca di Giorgio Napolitano, è costretto a chiedere supplenza e aiuto, invocandone in pratica una sorta di attività tutoria.

Si dirà che è colpa delle elezioni del 2018 e del loro esito schizofrenico: è vero. Ma anche quel risultato va messo nel bilancio quando si tirano le somme, perché non è venuto anch'esso per caso: anche la follia di quei voti dati «per cambiare» (così si pretendeva che fosse) al populismo berciante e privo di orizzonti di Beppe Grillo; o quella deriva di destra rabbiosa e inconsulta; e quella passività delle forze politiche tradizionali, la loro irritante e cieca sufficienza mentre tutto attorno a loro stava crollando, a trovare una risposta coerente unitaria ai bisogni del Paese.

Allora qualcuno disse – e aveva ragione – che si sarebbero dovute riformare le istituzioni, facilitare con opportune misure il governo del Paese, facilitare e non disperdere in mille sedi separate e tra loro incomunicanti i processi decisionali della politica. Si fece strame di quel progetto per settarismo politico o interessi contingenti di potere, e ne stiamo pagando le conseguenze. Da troppi anni stiamo parlando a vanvera di riforme istituzionali.

Come se ne è usciti adesso? Rieleggendo Mattarella. Un grandissimo presidente, certo, assai superiore al livello degli italiani di oggi; ma che non potrà da solo creare le premesse per risalire dal fosso nel quale siamo finiti. Si tratterebbe infatti di compiere uno sforzo sovrumano:  prima di tutto di darsi nuovi e efficaci strumenti istituzionali, che aggreghino il Paese e non lo dividano ulteriormente (dunque non il sistema proporzionale, questo è certo); poi di riformare l'istituto stesso della presidenza della Repubblica; quindi di ripartire i poteri tra governo e Parlamento, assicurando la permanenza almeno per una legislatura del primo (sfiducia costruttiva?) e la rinascita politica del secondo e della sua autonomia.

Si tratta di selezionare una classe politica formandola come un tempo la formavano i partiti che oggi non ci sono più, sperimentandola in un cursus honorum che parta dalle funzioni minori per giungere a quelle di vertice

Ma poi, sullo sfondo, ecco la cosa più difficile, si tratterebbe di selezionare una classe politica diversa da quella attuale, formandola come un tempo la formavano i partiti che oggi non ci sono più, sperimentandola poi in un cursus honorum che parta dalle funzioni minori per via via promuovere i migliori a quelle di vertice. Tuttavia, forse anche questo non basterebbe, se non vi fosse nel Paese una profonda riforma intellettuale e morale fondata sulla competenza di chi ha i requisiti, sul riconoscimento del merito individuale che va premiato, sulla distinzione, nell'eguaglianza dei diritti di tutti (tutti debbono potere acceder), delle eccellenze che pure abbiamo e che mortifichiamo o costringiamo a emigrare.

Perché governare un Paese, e non solo dai ministeri, cioè creare una vera classe dirigente, non è un gioco da ragazzi né da sprovveduti dilettanti allo sbaraglio. Va costruita, la nuova classe politica del domani. Sapremo farlo?

Indispensabili uomini chiave, invisibili ma tuttavia influenti interpreti-registi delle strategie presidenziali: sono i grand commis della Repubblica, a cominciare dai segretari generali al vertice della «macchina» interna del Quirinale

di Guido Melis
 
15 gennaio 2022
 

Quanto ha contato il dottor Ugo Zampetti nel settennato di Sergio Mattarella? Quanto Donato Marra accanto a Giorgio Napolitano? E Gaetano Gifuni, nei suoi 14 anni con Scalfaro e poi con Ciampi? E Antonio Maccanico a fianco di Pertini? O, per risalire agli inizi, Ferdinando Carbone con Einaudi, Nicola Picella pure con Einaudi e poi con Saragat e Leone? 

Ho citato, trascurandone alcuni, i grand commis della Repubblica, i segretari generali al vertice della «macchina» interna del Quirinale. Non mai semplici burocrati preposti all’amministrazione interna, come a lungo si è a torto ritenuto (la storiografia dell’Italia repubblicana li ha spesso trascurati); ma invece indispensabili uomini chiave, invisibili ma tuttavia influenti interpreti-registi delle strategie presidenziali. Basterebbero, a documentarlo, i diari di uno dei migliori, Antonio Maccanico: due densi volumi del Mulino che rivelano in modo lampante quale sia stato il ruolo «segreto» di questo intelligente quanto discreto protagonista nel periodo tra il 1978 e il 1985. Esecutore ma al tempo stesso mediatore delle scelte presidenziali; suggeritore e consigliere ascoltato; moderatore, nel caso, o sennò traduttore sapiente delle esternazioni talvolta impetuose e imprevedibili di Pertini; trait d’union tra il presidente e il mondo della politica e delle istituzioni.

 «Quello del segretario generale è stato ed è un mestiere peculiare, senza regole precise, affidato alla discrezione di chi lo svolge, al suo stile personale nell’interpretare la funzione»

Quello del segretario generale è stato ed è ancora un mestiere peculiare, senza regole precise (scarse le norme, poco influenti i precedenti). È affidato alla discrezione di chi riveste quella responsabilità, al suo stile personale nell’interpretare la funzione. Non è solo il capo dell’amministrazione, una specie di passacarte: è in realtà anche un risolutore di problemi, spesso dotato di intuito politico così da esercitare un’invisibile azione quasi di tutor del presidente.

Carbone (poi presidente della Corte dei conti) fu colui che diede alla macchina del Quirinale la prima legge organica (era il 1948) e che ne costruì l’assetto interno, riordinando una materia – gli uffici – già affrontata ma caoticamente sotto De Nicola (specie da Iginio Coffari, consigliere di Stato ed ex prefetto, cui il primo presidente si rivolse per «mettere ordine» nel palazzo Giustiniani, prima sede della presidenza). Fu Carbone a «inventare», in stretta aderenza con Einaudi, la nuova identità del Quirinale repubblicano, al tempo stesso sobria, lontana dai fasti mondani della Corte sabauda, ma a suo modo solenne, e anche basata su una sua inedita ritualità. Lo testimoniano bene gli archivi: ad esempio il Cerimoniale che Einaudi personalmente ideò in occasione della prima celebrazione da lui promossa della data del 2 giugno, la festa della Repubblica. Fa parte di quella costruzione (oggi parleremmo di brand) l’episodio arcinoto della pera del Presidente, raccontato nel 1970 da Ennio Flaiano, che ne fu testimone e co-protagonista. Arrivò alla mensa presidenziale, presenti Einaudi e la consorte, donna Ida, un massiccio vassoio straripante di frutta. Il presidente, impressionato dalla grandezza inusitata delle pere, chiese nella sorpresa (e un po’ anche nello scandalo malcelato del massiccio capo cameriere), se qualcuno dei commensali volesse per caso condividere con lui una mezza porzione del frutto. Flaiano, giovane giornalista del «Mondo», alzò arditamente la mano: Le pere divise, si intitolava infatti l’articolo-rievocazione scritto nel 1970. Finita l’epoca di Einaudi al Quirinale – commentava argutamente Flaiano – sarebbe però sopraggiunto il tempo delle pere «indivise».

Oscar Moccia, il segretario di Gronchi, ebbe statura minore di Carbone (e di Nicola Picella che intanto ne aveva preso il posto): veniva dalla carriera prefettizia, era – così almeno lo ricorda Matteo Mureddu, un anziano funzionario autore di due libri di memorie sul Quirinale dei re e dei presidenti – fisicamente basso e anche un po’ grasso, impacciato, privo di carisma, poco capace di comunicare col personale. Gronchi, un presidente iperattivo e forse anche troppo invadente (il contrario del self-control einaudiano) finì per confinarlo in un ruolo assolutamente di sfondo. Così forse fece anche Segni (che però durò poco, per via della malattia) con Paolo Strano, un altro prefetto. Più influente, ma con understatement, fu Nicola Picella; scolorito Franco Bezzi, che ne prese il posto nella seconda parte del settennato di Leone. Uomo chiave invece – lo si è accennato – Antonio Maccanico: si veda nei suoi diari la rete sempre attiva delle sue relazioni, spesso a cena in case di amici, con esponenti del mondo politico, compresi i comunisti. Rigorosamente circoscritto nei limiti tradizionali Sergio Berlinguer, un buon diplomatico con il quale Cossiga volle sostituire appunto Maccanico dirottato alla prestigiosa presidenza di Mediobanca.

Poi venne il lungo regno di Gaetano Gifuni (insieme a Maccanico e a Carbone forse da collocarsi nella triade dei più importanti segretari generali del dopoguerra); quindi il binomio Napolitano-Marra (si cambiava l’uomo al vertice, ma non la sua provenienza dall’apparato della Camera); e infine Ugo Zampetti. Al quale Marco Damilano ha di recente dedicato (forse non senza qualche forzatura) un ritratto a tinte forti, suggerendone un ruolo decisivo accanto a Sergio Mattarella.

Ma da dove venivano e vengono questi grand commis della Repubblica? 

Di solito dalle alte sfere della burocrazia parlamentare, molti già segretari generali della Camera o del Senato. Ciò li distingue nettamente da un’altra importante élite repubblicana, quella dei capi di gabinetto dei ministeri o dei segretari generali della Presidenza del consiglio, i quali sono tratti in genere dalle grandi pépinières del Consiglio di Stato, dell’Avvocatura dello Stato o (meno) della Corte dei conti. 

E come si compongono gli staff di diretta collaborazione? 

Anche qui emergono figure di specialisti in diritto: uno per tutti, che attraversò vari settennati, fu Salvatore Sechi, consigliere per gli affari giuridici, giunto sul Colle al seguito di Cossiga. Sardo della cosiddetta «Brigata Sassari» insediata al Quirinale dal «picconatore», Sechi restò però poi anche al fianco di Scalfaro, di Ciampi e di Napolitano, per un periodo che si estese dal 1985 al 2015. Fu una importantissima eminenza grigia della Repubblica. Ma ci si imbatte poi anche in non giuristi: specialisti della comunicazione (figure via via sempre più professionali, sino a quella, molto presente, di Giovanni Grasso accanto a Mattarella), addetti militari, economisti, diplomatici, specialisti dei beni culturali e talvolta in non meglio definiti «consiglieri politici». 

Tuttavia questi staff sono provvisori. Chi invece è inamovibile è la burocrazia interna, di antico insediamento e forse anche un po’, stando alla frequenza di certi cognomi, «ereditaria» (nel 1946 era stata in parte mutuata dal vecchio personale del re). Il peso di questo corpo «stabile» è indefinito: certo, dai tempi spartani delle pere di Einaudi, è enormemente cresciuto di numero.

«Che tipo di “macchina” supporterà il tredicesimo presidente? Ancora composta dalle élite tipo prima Repubblica oppure da esponenti di differente età, formazione, provenienza, cultura?»

E oggi? Che tipo di «macchina» supporterà il tredicesimo presidente prossimo venturo? Ancora composta dalle élite tipo prima Repubblica oppure – come sta accadendo ai vertici istituzionali di tutta Europa – da esponenti di differente età, formazione, provenienza, cultura? 

Rispondere non è facile. Molto dipenderà dalla persona che verrà eletta. Certo le grandi istituzioni, se vogliono durare (cioè conservare la loro legittimazione) devono saper cambiare: ma nella continuità. Occorre un mix di tradizione e di innovazione. E uno stile del presidente e del suo staff capace di «parlare» agli italiani d’oggi. 

Non sarà facile. Conforta un dato: sinora (pur con alti e bassi) gli inquilini del Quirinale sono risultati miracolosamente migliori delle classi di governo che li hanno espressi. Insomma, sul tetto di quel Palazzo, c’è stato, benefico, uno stellone d’Italia. Speriamo che, nonostante tutto, quello stellone brilli ancora.

[ Questo articolo fa parte dello speciale Quirinale 2022 su https://www.rivistailmulino.it/a/i-grand-commis-della-repubblica ]

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