di Paolo Borioni
Ė di poche settimane la dichiarazione del Ministro di Stato svedese Magdalena Andersson per cui il 2% del bilancio pubblico sarà attribuito alla difesa, percentuale che occorre raggiungere “appena sarà praticamente possibile”. Si prevedono aumenti di spesa in tutti i settori decisivi: aeronautica, sommergibili e missili rivolti vero il baltico, oltre ovviamente che per ritornare su livelli di reclutamento elevati. L’incremento di spesa sarà dai 36 miliardi di SKK nel 2022 a 108, un livello non più raggiunti dagli anni 1960. Si parla di una “tassa sulla difesa”, probabilmente per oltre 40 miliardi. Quanto ci vorrà a raggiungere quei livelli ovvero quale sarà la data del “praticamente possibile”? Andersson, già ministra delle Finanze, proclama impegni precisi ma poi non fissa scadenze nonostante l’opposizione borghese esiga esattamente date cogenti. Sebbene l’opinione pubblica sembri orientata verso un maggiore impegno militare senza più escludere una adesione alla NATO, in realtà il governo socialdemocratico cerca per quanto possibile di non definire date. La (c’è da dire assai felice) tradizione di neutralità svedese evidentemente pesa ancora, almeno nel senso di non escludere un momento forse non lontano in cui la suggestione di pericolo suscitata da Putin possa decrescere. In fondo ancora pochi mesi fa l’opinione pubblica era solo in minoranza favorevole ad aderire alla NATO. Retrocedendo, poi, di qualche anno, rilievi risalenti al 2010 indicavano una sicura maggioranza assoluta per la neutralità, e negli anni successivi la discesa di questo dato produceva un aumento degli indecisi piuttosto che dei favorevoli.
Questo forse è almeno un motivo per cui gli altri nordici vedono confermata la propria percezione della politica svedese, ovvero un ambiente in cui “si parla intorno alle cose” piuttosto che esprimersi con nettezza. Un fattore che però potrebbe affrettare la decisione è la presenza di una notevole industria nazionale per gli armamenti. Bofors per le artiglierie, Saab per l’aviazione, e una cantieristica non enorme ma che riesce a coprire la domanda nazionale di sommergibili (vitale a contrastare le tradizionali violazioni russe nel baltico) rappresenta certo una motivazione ulteriore rispetto agli altri nordici vicini, invece da questo punto di vista non muniti.
Infine, proprio negli ultimi giorni pare cresciuta la convergenza dei socialdemocratici con i principali rivali borghesi Moderaterna per rinforzare un’unità nazionale dietro al riarmo e alla collaborazione con la NATO. Fino a non escludere, per alcuni, una Grande Coalizione. Un’adesione all’alleanza occidentale, secondo gli analisti che abbiamo consultato, diverrà sempre più probabile in caso di accrescimento (reale o percepito) della minaccia russa, ma anche se la Finlandia seguirà i suoi vicini nell’ abbandono dello status di neutrale. I finlandesi, tradizionalmente ancora più convinti degli svedesi della propria neutralità, paiono oggi in maggioranza favorevoli alla NATO.
Rimangono tuttavia alcune contraddizioni di base: in un mercato del lavoro da sempre vicinissimo alla piena occupazione non sarà facile trovare il personale e i tecnici per ampliare la produzione militare e l’alternativa dell’importazione massiccia non è altrettanto allettante, com’è ovvio. Per tacere del personale militare. Magdalena Andersson del resto lo ha esplicitato: “E qui voglio usare una lingua chiara: più giovani dovranno essere richiamati al servizio militare”. Quest’ultimo era stato abolito nel 2010, come tappa significativa di un itinerario di disarmo intrapreso già in precedenza. Si valutavano ormai le minacce regionali residue ad un livello così modesto da premettere di abbassare, secondo alcuni calcoli, al 10% la dotazione di personale ed attrezzature militari. Ben presto però segnali contrari hanno portato ad invertire la rotta: le varie guerre più o meno interne di Putin e soprattutto l’annessione della Crimea nel 2014. Ciò, proprio quando la socialdemocrazia tornava al governo, dopo un record di otto anni all’opposizione, costrinse gli esecutivi a dichiarare che si sarebbe ricorso a crescenti spese per la difesa, benché poi senza vere conseguenze pratiche. In questa scarsa coerenza hanno più di tutto contato le remore, ormai interiorizzate anche dalla Socialdemocrazia al governo, di natura “ordoliberale”, ovvero inchiodate a regole fisse (particolarmente irragionevoli in Svezia) di avanzo di bilancio e commerciale. Così, soltanto nel 2020 il bilancio per la difesa è davvero di nuovo salito, segnatamente per predisporre esercitazioni e difesa nell’isola di Götland, posta strategicamente in mezzo al Baltico. Ma ben altro si prepara oggi, ovvero nell’epoca in cui la Russia è valutata una minaccia e si comporta pienamente come tale, tanto che il 12 marzo un portavoce del ministero degli Esteri russo ha chiarito che un avvicinamento alla NATO di Finlandia e Svezia avrebbe conseguenze, sia Politiche sia militari (senza specificare la natura di queste ultime).
Riassumendo, la Svezia è un caso paradigmatico di come la nostra parte del mondo ha interpretato il post-guerra fredda: oscillando fra noncuranza, fiducia che tutto sarebbe stato risolto dalla espansione NATO e infine allarme dinanzi all’evoluzione nazionalista del governo di Mosca. Un tentativo (probabilmente in qualche modo proficuo) di prevenire queste oscillazioni occidentali e queste malefiche evoluzioni russe, accreditando il Cremlino di uno status di partner con cui negoziare e raggiungere un equilibrio davvero globale e davvero condiviso, non è stato mai compiuto.
Dunque, i problemi di adattamento politico, nel senso sopratutto di demografico-produttivo, ad uno scenario del tutto nuovo di riarmo, pesano e vanno valutati più degli “abiti mentali” veri, presunti o attribuiti (direi come sempre nella storia). Più che “parlare intorno alle cose” gli svedesi hanno grandi ostacoli materiali da oltrepassare. E non possono, come già Danimarca e Norvegia stanno facendo, limitarsi semplicemente a immettere nuovo carburante in un macchinario militare NATO già predisposto. A Oslo e Copenaghen, infatti, ci si sta dedicando (oltre che ad incrementare anche qui cospicuamente gli stanziamenti militari, persino in deficit) ad aggiungere alla partecipazione NATO iniziative bilaterali di collaborazione con gli USA. Per la prima volta i soldati nordamericani avranno accesso al territorio e alle strutture danesi e norvegesi, cosa sempre esclusa in precedenza, assieme ad ogni presenza di armi nucleari e di basi prettamente americane (presenti per esempio in Germania ed Italia). Oltre a ciò, esiste una struttura militare condotta dai britannici, la Joint Expedicionary Force (Jef) cui aderiscono anche Norvegia, Finlandia, Estonia, Lituania, Paesi Bassi e Islanda, focalizzata soprattutto sulla sicurezza nel Baltico, Atlantico settentrionale e mari costeggianti la Norvegia, senza escludere missioni altrove. Al Jef, opportuno notare, partecipa anche la Svezia, decisione che si aggiunge alla progressiva usura della neutralità di Stoccolma.
È proprio questa usura a suggerire anche riflessioni più importanti e di maggiore visuale storica. In passato, la non irrilevante industria militare svedese, oltre ad essere scevra da cooperazioni con potenze tradizionali, aveva costituito paradossalmente una precondizione della sua peculiare “libertà da alleanze”, la cui altra faccia era una proiezione politica attiva e molto progressiva nel mondo della guerra fredda. Nell’ambito di questa dottrina (come era stato confermato dai due conflitti mondiali) la Svezia utilizzava la forza militare per ulteriore garanzia di potersi mantenere fuori dai conflitti. Ciò avveniva aggiungendo (con un armamento che già durante la Seconda guerra mondiale era stato incrementato) un ulteriore fattore di dissuasione militare verso potenze contrapposte in un eventuale conflitto. Esse infatti si supponevano già impegnate allo spasimo a contendersi zone più strategicamente importanti o di frontiera (come furono la Danimarca per conquistare alla Germania le fondamentali produzioni alimentari sottraendole all’impero britannico, la Norvegia per controllare appieno gli sbocchi sul mare del Nord e l’Artico, la Finlandia come zona di confine “cuscinetto” dei sovietici). Ne derivava un uso (forse controintuitivo, ma efficace) delle armi per un’ulteriore credibilità della neutralità svedese in ogni condizione ipotizzabile. Esso fu nei lunghi decenni della maggiore egemonia socialdemocratica capace di rendere più credibile la “libertà da alleanze”. Quest’ultima inoltre, come ogni vera politica estera, non era un’opzione puramente etica, ma serviva in modo eccellente l’interesse nazionale svedese, con dunque ragioni pragmatiche evidenti. Fra esse la capacità di prevenire tensioni, in generale e a proprio sfavore, ritenuta vitale per un paese impossibilitato, per dimensioni e collocazione, ad essere a sua volta potenza. Infatti, la credibilità come neutrale rendeva anche più efficace l’opera di distensione, d’impegno multilaterale nell’Onu, nonché di cooperazione internazionale (decisamente anti-imperialista) verso il sud decolonizzato del mondo. Sollevare quanti più paesi del sud del mondo dalla mera logica delle grandi potenze fu in questi decenni un obiettivo politico coerente con l’interesse nazionale svedese.
Prendendo in considerazione quanto invece avviene oggi, si comprenderà bene che si va disperdendo il potenziale storico positivo della “neutralità attiva” svedese, una risorsa che per funzionare come importante fattore di distensione, trattative e produzione di concetti preziosi per la “sicurezza condivisa” abbisognava di elementi ed esperienze pazientemente accumulati in due secoli di “neutralità pragmatica”.
Anche rispetto agli armamenti di difesa, l’importante produzione militare nazionale era un tempo resa sostenibile anche mediante esportazioni. Queste però erano severamente disciplinate: nessun paese in guerra, oppure aggressivo o repressivo (come il Sud Africa dell’apartheid) poteva acquistare armi svedesi. Oggi l’invio in Ucraina dei dispositivi anticarro pansarskott (per quanto al di dentro dei limiti NATO relativi ad armi “di difesa”) indubbiamente rende inservibile e un altro pezzo rilevante della neutralità svedese. Si comprende che la Svezia non potrebbe più spendersi credibilmente per il disarmo come faceva un tempo, peraltro (altro elemento di interesse nazionale) acquisendo una statura globale ben superiore alla sua dimensione geografica e demografica. Alcuni giorni or sono Pierre Schori, già principale collaboratore di Olof Palme in politica estera, è intervenuto sul maggiore giornale svedese “Dagens Nyheter” proprio per criticare le attuali propensioni della politica di sicurezza svedese. Schori ha sottolineato che la “Commissione Palme” al principio degli anni 1980 aveva prodotto importanti soluzioni favorevoli ad una distensione fra i due blocchi contrapposti. Anche se ciò avvenne in un momento sfavorevole (l’Urss invadeva l’Afghanistan, mentre Reagan rilanciava la guerra fredda e l’economia americana con i deficit gemelli sospinti dal riarmo delle “Guerre Stellari”) il concetto di “sicurezza condivisa” fu poi importante nelle evoluzioni positive della seconda parte del decennio. Secondo questo concetto nessuna vera sicurezza poteva davvero derivare dal semplice equilibrio di potenza. E tantomeno dall’espansione della sicurezza di una sola delle parti, in Europa o in Medio Oriente, come quella (molteplicemente inefficace) intrapresa da NATO e Usa in questi decenni. Occorreva trattare e raggiungere una sicurezza egualmente certa e affidabile per i principali interessati. Ed occorrevano accordi di disarmo, che infatti consentirono poi a Reagan di cambiare modo di sviluppo e, di riflesso, facilitarono all’interno dell’Urss, in declino e in difficoltà, l’emersione d’una guida politica collaborativa, alla Gorbachev, anziché una reazione disperata.
In sostanza, senza la Commissione Palme, e senza la lungamente accumulata credibilità storica della neutralità attiva socialdemocratica alle sue spalle, il mondo avrebbe avuto una via d’uscita in meno. La graduale, e ormai totale, scomparsa di questa eredità svedese conferma che oggi le risorse della convivenza pacifica stanno diminuendo proprio mentre esplode la guerra in Europa. Diminuisce il pluralismo delle posizioni nell’arena internazionale, e inevitabilmente si compattano i fronti presidiati, anche nei dibattiti pubblici interni, sempre più da ideologi travestiti da esperti. Invece prolifera, pur con diverse responsabilità e gravità, il ricorso di tutti i paesi ai depositi ideali meno collaborativi e più aggressivi.