di Paolo Borioni
Se ci astraiamo per un momento dalla corsa italiana per il Quirinale, e ci dedichiamo alla Germania, possiamo acquisire qualche elemento di riflessione sulle difficoltà attuali delle maggiori culture politiche europee.
Questo perché in Germania, a differenza che in Italia, esse ancora esistono e perché ne esistono i partiti di riferimento. Ed esistono in un paese-guida, non periferico o declinante, ergo non sono residuali come alcuni teorici (o solo imprenditori?) del nostro nuovismo hanno presuntuosamente pensato.
Socialdemocratici, cristiano-democratici e liberali sono stati presenti in tutti i governi del nuovo millennio, ma questo però non impedisce che la principale cultura politica nuova, l’ambientalismo, divenga in Germania la più grande d’Europa, oggi al governo con due ministeri decisivi. Mentre noi, da 30 anni (quindi è una tendenza recente, non un destino storico), pur essendo patria di tutti i nuovismi, invece non abbiamo la novità politico-ideologica di maggior rilievo: l’ambientalismo. Forse il punto è che, se “il nuovo” è un’attività da imprenditori del marketing o della comunicazione (con seguito professionale di guitti), in realtà nessun ragionamento vero sull’innovazione può sopravvivere. Mentre una dialettica seria fra continuità e discontinuità è sempre possibile laddove ambedue sono rappresentate da culture politiche che, essendo appunto storiche, hanno la profondità per tematizzare esattamente il rapporto sempre complesso fra radici strutturali e mutamento.
Vediamo ora un caso di questa complessità.
Angela Merkel, per quanto decantata come la grande leader europea, dovrebbe probabilmente essere percepita come una statista assai meno di successo di quanto si dica, per esempio perché ha sottoutilizzate le possibilità di innovazione del proprio paese.
Due dati ce lo dicono: quelli elettorali e quelli del debito pubblico tedesco. Angela Merkel ha perso le ultime elezioni per motivi di lungo periodo, non perché non era candidata: quando ha disputato la sua prima elezione le 2005, la Cdu-CSU aveva il 35% circa dei voti. Nelle successive è sempre calata, tranne quando nel 2013, dopo una legislatura in coalizione coi liberali, ne cannibalizzò il voto, costringendo la Fdp ad un’inusuale espulsione dal Bundestag per non avere raggiunto la soglia di sbarramento del 5%. I veri grandi leader del passato, a parte che avevano percentuali ben maggiori (ma erano tempi diversi con solo tre partiti, non sei come sono oggi), mantenevano la quote elettorali assai più stabili: come fecero Adenauer, Erhard e i successori dal 1953 a tutti gli anni settanta. Con Kohl cominciò un calo (ma come detto dipendeva anche dal raddoppio dell’offerta politica capace di passare il 5%), che però con Merkel si è accentuato nettamente. Oggi la Cdu-CSU è ben sotto il 25%, e inferiore alla Spd: come era capitato solo altre due volte (1972 e 1998). Come sia avvenuta questa involuzione sarebbe complesso dirlo, ma limitandosi ad una spiegazione fondamentale potremmo appunto parlare di due incapacità: sia quella di innovare proporzionalmente rispetto a quelli che sono stati i potenziali (e alle necessità), sia quella di redistribuire equamente questi potenziali. Ora, tutti sanno che le potenzialità di competitività e bilancio tedesche sono elevatissime, ma per rendersi conto della occasione mancata da Frau Merkel potremmo rifarci a qualcosa che probabilmente sfugge ai più. In una ricerca interessante (GERMANY’S BENEFIT FROM THE GREEK CRISIS, Geraldine Dany, Reint E. Gropp, Helge Littke and Gregor von Schweinitz, IWH, 2015, ma ce ne sarebbero anche altre) si calcola che la “crisi greca” ha dal 2007 in poi prodotto la disponibilità di molti risparmiatori a pagare (anziché guadagnare) per detenere i titoli di stato tedeschi. Ciò perché in molti portafogli titoli si è valutato che almeno in parte l’investimento, dato il contesto insicuro, dovesse affluire verso “porti sicuri”, a costo di conferire allo Stato tedesco, al momento della liquidazione, una certa cifra per questa operazione. Questo fatto, aggiunto agli acquisti della BCE, che compra ovviamente anche titoli di paesi saldi finanziariamente (come altrimenti sperare nel consenso in seno al direttivo BCE?) ha reso, oltre al “prestito” realizzato con l’acquisto dei titoli, circa 100 miliardi di euro aggiuntivi fra 2007 e 2015. E ovviamente anche in seguito. Ora, chi ha governato tra il 2005 e il 2021 (Spd, Cdu-CSU e Fdp nel 2013) ha perso molti voti perché, con tutta evidenza, i potenziali enormi non sono stati utilizzati né per rimediare al forte stress sociale prodottosi in una Germania sempre più ineguale e precarizzata, né per innovare in senso “verde” o riqualificare PA, trasporti, sanità, come era evidentemente richiesto. I media nordici, che seguo costantemente, sono pieni di commenti che ironizzano sull’uso del fax per comunicare con la PA tedesca, o sul livello deludente di trasporti pubblici e aeroporti (a cominciare da Tegel, il più nuovo di Berlino). O sul ritardo cospicuo delle misure per il clima. Per non parlare di settori ampi del welfare.
Come abbiamo visto, Merkel era stata in realtà sempre (benché moderatamente) punita per questo, e le elezioni del 2021 hanno solo sancito una punizione più inequivocabile. In un’altra circostanze potremo intrattenerci sulle ragioni ideologiche e strutturali di questa mediocrità, prospettiva e realizzativa. Oggi però ci limiteremo ad alcune considerazioni conclusive.
La Spd si è salvata dal destino di Merkel e del suo sfortunato erede designato Laschet, risalendo del 5% (benché solo dagli abissi del 20%) perché evidentemente è stata ritenuta (anche da ex elettori Cdu-CSU che l’hanno votata) in grado di funzionare più credibilmente in un mutamento di prospettiva. La Spd è stata chiamata (dati dei flussi alla mano) a rappresentare l’ala più redistributiva in un’alleanza con l’innovazione (soprattutto verde) del partito ambientalista e quella di ammodernamento “borghese” rappresentata dalla Fdp (oltre che dalla Spd stessa, ovviamente).
Così, l’attuale esecutivo tedesco, sul quale sono leciti parecchi dubbi per altri versi, nondimeno rappresenta una mutamento espresso nel titolo del programma concordato: MEHR FORTSCHRITT WAGEN, “osare più progresso”, che riecheggia il certo più “rivoluzionario” “Mehr Demokrati Wagen” dei tempi di Willy Brandt.
Concludiamo tornando su un punto: non ci sono “nuovismi” a realizzarlo ma liberali, socialdemocratici e verdi. I primi due sono partiti nati nel XIX secolo ma del tutto capaci di aprirsi ad una crescita nettamente ambientalista, organizzata nel partito della grande questione ambientale, e (non deve suonare paradossale) per questo presente stabilmente nel panorama tedesco da almeno 45 anni. Se si fa un paragone sul punto bisogna constatare che il nostro partito più vecchio è la Lega, che ha circa 40 anni, mentre in gran parte le nostre forze politiche sono in realtà poco più che caduche liste elettorali, di cui cambiano le sigle ma quasi per nulla idee e candidati.
Rimane il limite che individuiamo nella innovazione proposta dal governo del cancelliere Scholz. Le grandi innovazioni che propone hanno bisogno di un consenso popolare ampio che riuscirebbero ad ottenere solo se questo “osare progresso” fosse anche l’uscita da decenni di peggioramento evidente della qualità del lavoro. È vitale che specie la rivoluzione verde, la più cruciale e profonda, debba associarsi ad una svolta di giustizia sociale, per non suscitare resistenze che le sarebbero letali. Ma questo nesso, per l’esecutivo di Berlino, non è affatto un obbiettivo prioritario, come lo era invece quando il motto del rinnovamento invece era “osare più democrazia”.