Finestre

Finestre sul Mondo: le trasformazioni attuali dei Paesi europei e non.

di Paolo Borioni

Dichiarazioni come quelle di Trump sulla Groenlandia hanno per i danesi un effetto ansiogeno soprattutto perché, chiudendo presto la pace in Ucraina, egli potrebbe completare la marginalizzazione della NATO come dispositivo di sicurezza. La degradazione della Danimarca come fattore degno di nota nello scenario artico sarebbe appunto una delle prime conseguenze di ciò, nonché una delle nuove conferme storiche che alla lunga non è mai premiante per i paesi nordici partecipare ad imprese militari che acuiscono le tensioni fra le grandi potenze anziché alla distensione fra di loro. Del resto, le intenzioni del presidente eletto USA possono essere attribuite a molte e diverse ispirazioni, ma forse nessuno le richiama alla mente come Robert E. Peary, esploratore nordamericano ed ingegnere navale militare vissuto fra Otto e Novecento, critico sulle concessioni americane verso Copenaghen. Prima della sua morte, nel 1920, egli fu uno dei maggiori esploratori artici, soprattutto in Groenlandia, che oggi fa parte della “Rigsfælleskab”, la comunità del regno che comprende anche isole Fær Øer e Danimarca.

Secondo Peary gli USA nel 1916 non avrebbero dovuto acquistare le cosiddette “Indie Occidentali Danesi” poste nella zona caraibica, ma appunto invece la Groenlandia. L’avvenimento storico è pregnante perché ciò che spinse l’amministrazione USA a stanziare 25 milioni di USD per acquistare invece le colonie insulari danesi nei Caraibi fu un altro snodo geostrategico emerso nelle bombastiche espressioni di Trump in questi giorni: Panama e il suo canale, ultimato nel 1914. La prossimità al canale rendeva molto interessante il porto caraibico di Charlotte Amalie, sotto controllo danese, e l’acquisto divenne addirittura indifferibile poiché in piena prima guerra mondiale a Washington temevano che la Germania con un colpo di mano avrebbe appunto potuto aggiudicarselo.

Per fortuna, dalla loro i danesi avevano la perizia del ministro degli Esteri Eric Scavenius, che ben oltre i 25 milioni di USD ottenne in cambio delle tre isole caraibiche una dichiarazione in cui gli USA riconoscevano la sovranità danese sull’intera Groenlandia, ovvero non solo sui suoi territori coloniali meridionali ed occidentali occupati da circa duecento anni dai danesi. Ciò peraltro poneva la Danimarca al sicuro anche dalle pretese della Norvegia, che avendo ottenuto nel 1905 l’indipendenza dalla Svezia aveva subito evidenziato come nella parte orientale della Groenlandia presenze norvegesi avevano preceduto di secoli l’espansione coloniale danese. E questa, del resto, era avvenuta fra XVII e XVIII secolo con la compartecipazione proprio della Norvegia, allora parte dello Stato dinastico danese.

Le critiche di Peary alla scelta del governo di Washington erano innescate da considerazioni sulla incapacità danese di sfruttare appieno gli enormi potenziali minerari, geostrategici, marittimi del grande paese Inuit. Ma anche dalla deroga al principio per cui a latitudini americane (cui la Groenlandia appartiene o è molto prossima) avrebbe dovuto valere la dottrina Monroe del 1823: l’illegittimità nelle Americhe del colonialismo europeo, battistrada invece del controllo imperialistico USA. Per Trump sono suggestioni assai ghiotte, che paiono animare non solo il contenuto delle sue esternazioni, ma la sua terminologia. I precedenti storici infatti richiamano come le sue parole la pratica dell’acquisto, sospinta dal diritto geostrategico USA ad espandere unilateralmente le proprie linee di difesa, e giustificata dall’incapacità europea, specie danese, ma anche canadese, di contribuire decisivamente alla comune difesa atlantica. Sono insomma gli USA a “proteggere” Canada e Danimarca, nonché effettivamente la Groenlandia, da cui il diritto a fare da sé.

Questa baldanza unilateralistica si comprende ancora meglio aggiungendo che in effetti gli USA dal 1941 hanno più o meno sempre sviluppato una presenza militare in Groenlandia, e si può perfino sostenere essa sia stata loro richiesta. Mentre infatti i danesi si trovavano in patria sotto l’occupazione nazista, le autorità governatoriali Inuit chiesero agli USA (ancora per pochi mesi neutrali) di prevenire con la propria presenza che le truppe germaniche, ma anche semmai quella canadesi o britanniche che le combattevano, attuassero un’invasione. Quale migliore conferma della dottrina Monroe? In seguito, tale presenza militare non è mai stata messa in discussione dai governi di Copenaghen: infatti, l’unione di difesa nordica e neutrale proposta nel secondo dopoguerra dagli svedesi non fu accolta da Copenaghen ed Oslo, che aderirono notoriamente alla NATO. Il governo socialdemocratico guidato da Hedtoft, tipico intorno al 1950 di una fase squilibratamente atlantista della socialdemocrazia, utilizzò peraltro la base USA groenlandese di Thule per dissimulare una verosimile incoerenza rispetto a una condizione fondamentale dell’adesione nordica alla NATO: nessuna presenza militare e nucleare USA sul territorio danese o norvegese.

 

Oggi è in prospettiva destinata a tornare in primo piano l’autonoma soggettività degli Inuit di Groenlandia, più vicina alla decisione del 1941 di garantire la propria autonomia nel conflitto mondiale. Le recenti posizioni della ministra di Stato danese Mette Fredriksen rispetto alle ambizioni trumpiane sembrano rivelarlo appieno: mentre nel 2019 riguardo ad un’esternazione di Trump analoga a quella attuale era stata netta ed inequivocabile (“la Groenlandia non è in vendita, e il discorso finisce qui”) nei giorni scorsi Fredriksen è stata assai più circostanziata. L’ovvietà che la Groenlandia non sia in vendita è stata tuttavia contestualizzata nell’affermazione che sono i groenlandesi e decidere di non esserlo, e che comunque tutto verrà discusso a Nuuk, sede del governo autonomo. Solo a questo punto Fredriksen ha aggiunto che anche e forse soprattuto in questo senso l’interesse della Groenlandia è di rimanere nella “Comunità” con Danimarca e Fær Øer, per poi in quest’ambito meglio contrattare con gli USA (ma magari anche con altri) la natura e la portata della loro presenza futura in questa parte dell’Artico.

Ma quanto la Danimarca in questa fase può davvero aiutare il governo di Nuuk a farsi valere, e dunque convincerlo della permanente centralità del rapporto istituzionale con Copenaghen? Intanto, mentre nei 2019 Trump poteva ancora parere un caduco incidente elettorale, oggi non è più così. Soprattutto, la Danimarca si è molto esposta finanziariamente ed ideologicamente nella guerra contro l’Ucraina ed ora la presidenza Trump, visto l’annunciato disimpegno USA dalla guerra europea, la rende addirittura presenza scomoda. Il governo di Copenaghen può sperare da parte sua che le richieste di Trump nella zona artica possano divenire materia di baratto rispetto a non lasciare troppo scoperti gli alleati NATO del Baltico nell’ambito dei futuri accordi fra Washington e Mosca. A questo fine, ma più in generale a quello di rimanere un fattore importante della geostrategia artica, i danesi dipendono sempre più dagli elementi che negli Inuit di Groenlandia tendono ad una maggiore prossima autonomia, ma non ad una prona americanizzazione. Di cosa si tratta? Sostanzialmente di legami storico-culturali e di culture politiche. La popolazione autoctona è ad esempio molto legata alla monarchia di Copenaghen, ed in queste ore il leader del governo autonomo di Nuuk Múte Bourup Egede ha anche visitato re Fredrik, da poco succeduto alla madre Margherita II. Anche il legame religioso con la “Chiesa del Popolo” danese di tendenza luterana è pervasivo. In un futuro referendum sulla natura dell’indipendenza dalla “Comunità” guidata da Copenaghen queste suggestioni potrebbero pesare. Ci sono poi elementi più immediatamente incisivi, e ci pare del tutto ignorati dai resoconti dei media di questi giorni. Múte Bourup Egede guida il governo di Nuuk dopo la vittoria del proprio partito Inuit Ataqatigiit (traducibile con “Comunità Inuit” ovvero “degli uomini”, oltre il 36% dei consensi allE ultime elezioni). Si tratta di tipico indipendentismo socialista antimperialista, alla sinistra della socialdemocrazia Siumut (traducibile con “Avanti!”), secondo partito con il 30%. Egede governa dal 1921 con altri partiti indipendentisti e la sua vittoria è stata il risultato fra l’altro della forte opposizione delle popolazioni locali a progetti minerari (di compagnie cinesi e australiane) ritenuti solo temporaneamente remunerativi e invece permanentemente nocivi sul piano ambientale. È nell’ambito di questo contesto che la linea del governo autonomo di Nuuk (“non siamo in vendita ma siamo disposti a fare affari”) va interpretata. Le rilevazioni di opinione degli ultimi anni confermano quanto le culture politiche del paese esprimono chiaramente: il risentimento verso il passato colonialismo danese non impedisce di apprezzare tuttavia ancora il rapporto con Copenaghen più che quello possibile con gli USA. Anche perché il modello di welfare nordico, sostenuto fra l’altro da un contributo fisso di Copenaghen a Nuuk di quasi 4 miliardi di Corone (per nemmeno 60.000 individui), è certamente preferito rispetto al carattere disfunzionale della società USA, nonché al modo in cui gli USA hanno trattato e trattano le proprie popolazioni native.

Questo ci riconduce a quanto dicevamo in apertura: se queste sono le carte in mano a Copenaghen, l’attuale situazione del baltico e della regione artica costringe a giocarle in modo più ansiogeno, nonché probabilmente meno risolutivo, del passato e del possibile. Copenaghen teme con tutta evidenza che Trump, nella sua nota e del tutto comprensibile volontà di chiudere coi russi un accordo sull’Ucraina, possa così rendere del tutto trascurabile il peso dei danesi, procedendo poi senza riguardi per loro a curare la propria sicurezza nell’Artico. Insomma, oggi i danesi dipendono nella loro presenza artica maggiormente dalla volontà degli Inuit groenlandesi, e meno del passato dal proprio ascendente su Washington.

Un maggior equilibrio fra appartenenza NATO e impegno per un Baltico ed un Artico del disarmo avrebbe invece nei decenni passati reso inattuali le richieste USA, o avrebbe consentito di affrontare qualunque novità con ben minor timore che la dialettica fra processo di autonomia Inuit e protagonismo USA possa scalzare i danesi dall’Artico.

Un esempio di questo possibile equilibrio non troppo ideologicamente atlantista risale agli anni 1980: la socialdemocrazia danese portò allora il Parlamento di Copenaghen a dichiarare che le armi atomiche USA, non potendo essere presenti in territorio danese, non potevano essere nemmeno trasportate da navi militari nei porti del regno nordico. Furono anche questi atti di distensione dall’interno della NATO a condurre verso la distensione degli anni di Gorbachev. La fine della guerra fredda ha invece condotto ad una sorta di “disarmo del disarmo”, anziché, come avrebbe dovuto essere, ad una sua ancor maggiore pratica. La Danimarca ha per esempio non solo mutato atteggiamento internamente alla NATO, ma dal 2014 ha anche costruito la Joint Expeditionary Force, alleanza squisitamente militare attiva nel settore nordico e baltico, guidata dal Regno Unito e partecipata dai paesi baltici più ostili alla Russia, nonché da Svezia e Finlandia ancor prima che terminasse la loro neutralità (evidentemente già in declino). Insomma, nei passati decenni il contributo nordico alla distensione e semmai ad allargare la zona di neutralità disarmata fra NATO e Russia è venuto meno. Ne è risultata un’escalation di culture politiche e pratiche nazionaliste nella regione che oggi vede sempre meno legittimato il ruolo di un piccolo stato come la Danimarca in uno scenario crescentemente cruciale come quello Artico. A riprova del fatto che l’impossibilità degli Stati nordici di essere potenze, certificata da oltre due secoli, non lascia loro che una strada durevole: da neutrali come da alleati di grandi potenze, possono solo spendersi per la ricerca di equilibri non aggressivi e per una sicurezza condivisa. Sono questi i processi che possono legittimare una loro influenza persino maggiore del peso reale, mentre scelte opposte ne minano sia il ruolo globale sia quello regionale, senza affatto giovare alla loro sicurezza.

[Pubblicato su https://www.strisciarossa.it/le-minacce-di-trump-sulla-groenlandia-rischiano-di-marginalizzare-la-danimarca-ma-anche-la-nato-e-la-ue/ ]

di Angela De Benedictis

Istituzioni di governo cittadine in difesa della patria, Bologna, minacciata dal suo sovrano papa Alessandro VI e da suo figlio Cesare Borgia nel 1502. L’istituzione populus cittadino che richiede un parere sulla liceità della resistenza di Bologna al suo sovrano, il papa guerriero Giulio II[1] nel 1506. Un discorso pronunciato in pubblico nel 1502, in volgare; un parere legale (consilium) scritto nel 1506, in latino. Queste le due fonti primarie già da tempo note nelle rispettive edizioni a stampa, di cui qui si forniscono le riproduzioni degli originali manoscritti. Fino ad ora non erano disponibili alla visione diretta, che – soprattutto nel caso del consilium del 1506 – possono essere di particolare interesse per gli studiosi della Società per gli Studi di Storia delle Istituzioni esperti del rapporto tra manoscritti medievali/tardo medievali e stampa (penso soprattutto a Mario Ascheri e Diego Quaglioni, soprattutto dopo il diciassettesimo incontro de "Le Carte e La Storia” dello scorso 4 novembre 2022 su “Tra diritto e istituzioni. Un percorso di ricerca”, https://www.storiadelleistituzioni.it/index.php/le-carte-e-la-storia/le-giornate-de-le-carte-e-la-storia/367-mario-ascheri-tra-diritto-e-istituzioni-un-percorso-di-ricerca).

Autori dell’uno e dell’altro sono due docenti nello Studio bolognese: il canonista e teologo Floriano Dolfi (1445 ca. - 1506[2]) e il doctor utriusque iuris Giovanni Crotto da Monferrato (1475 ca. - 1517[3]).

Da tempo mi sono occupata del discorso di Dolfi e del consilium di Crotto[4]: del discorso pubblico di Dolfi attraverso la edizione novecentesca Orazione in difesa della patria[5], data alle stampe come composizione per le nozze Mirafiori-Boasso; del consilium di Crotto attraverso la edizione del 1576[6]. Vale la pena sottolineare che l’orazione pubblica di Dolfi del 16 ottobre 1502 era stata preceduta da una intensa attività di ambasciatori bolognesi inviati a Roma dal governo cittadino per impedire che Alessandro VI e Cesare Borgia muovessero guerra a Bologna[7]. È d’altra parte noto che Niccolò Machiavelli, seguendo le vicende bolognesi nel corso della sua seconda legazione presso la corte papale in viaggio da Roma a Bologna, riferì ripetutamente delle trattative tra il governo bolognese e l’inviato pontificio Antonio del Monte, Uditore generale della Camera Apostolica, nel settembre-ottobre del 1506[8].

Continuando periodicamente a cercare di individuare l’originale della orazione di Dolfi, mi è fortunatamente successo di trovarlo nella raccolta della Autografoteca Campori della Biblioteca Estense Universitaria di Modena[9]. E, consultando tutta la appendice della Autografoteca, anche di trovare l’originale manoscritto del consilium di Crotto[10].

Mostrare qui entrambi serve anche, da una parte, a dare rilievo alla iniziativa in corso di digitalizzazione della Autografoteca, con un progetto congiunto tra Biblioteca Universitaria Estense e Università di Modena – Reggio Emilia[11].  Dall’altra, a ricordare che l’originale dell’interdetto di Giulio II cui il consilium di Crotto rispondeva era già stato scoperto e mostrato da un archivista, da Mario Fanti[12] (dal 1961 al 2013 Sovrintendente onorario dell’Archivio Generale Arcivescovile di Bologna), nonché per anni bibliotecario della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna e direttore del Museo e Archivio Storico della Fabbriceria di S. Petronio.

Infine, va detto che anche l’orazione di Dolfi del 1502 costituiva una risposta alla prassi di governo del papato nello Stato della Chiesa costituito dall’uso dell’una e dall’altra spada: cioè l’uso dell’interdetto contro le città per costringere le rispettive popolazioni all’obbedienza, con la motivazione della guerra giusta[13].

Gli autografi Orazione fatta da Floriano Dolfi per Alessandro VI del 1502 e il Consilium Domini Ioannis Croti de Monferrato in Causa Reipublicae Bononiensis Adversus Summum pontificem editum del 1506 testimoniano diverse modalità di risposte immediate alla istituzione papato da parte di istituzioni di governo cittadine, secondo un’altra verità (rispetto a quella pontificia) di teoria e pratica della guerra giusta.

 

Dolfi, Orazione in difesa della patria (pdf)  Crottus (pdf) 

 

 

[1] M. Rospocher, Il papa guerriero. Giulio II nello spazio pubblico europeo, Bologna, il Mulino, 2015, e ora la sintesi di Idem, Giulio II a Bologna: arte, politica e religione, nel catalogo della mostra attualmente in corso (8 ottobre 2022 – 5 febbraio 2023) presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna, Giulio II e Raffaello. Una nuova stagione del Rinascimento a Bologna, a cura di D. Benati, M.L. Pacelli, E. Rossoni, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2021,

[2] Su Dolfi, G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, III, Bologna, nella Stamperia di San Tommaso d’Aquino, pp. 256-258; P. Stoppelli, Dizionario biografico degli italiani, 40, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991, pp. 449-451. Informazioni sulla biografia si possono trovare anche in Floriano Dolfi, Lettere ai Gonzaga, edizione a cura di M. Minutelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002.

[3] Su Crotto e sul consilium, E. Dezza, Dizionario biografico dei giuristi italiani, (sec. XII-XX), a cura di E. Cortese, I. Birocchi, A. Mattone, M.N. Miletti, Bologna 2013, pp. 615-616.

[4] Riportandone estesamente i contenuti soprattutto a partire da A. De Benedictis, Repubblica per contratto. Una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna 1995, pp. 162-164 (Dolfi) e ibidem, pp. 170-187 (Crotto). Per il consilium di Crotto anche in A. De Benedictis, Una guerra d’Italia, una resistenza di popolo. Bologna 1506, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 115-122 (e un sintetico accenno all’orazione di Dolfi, pp. 113-114). Recentemente, di nuovo su entrambi, A. De Benedictis, Popular Government, Government of the Ottimati, and the Language of Politics: Concord and Discord (1377-1559), in A Companion to Medieval and Renaissance Bologna, ed. by Sarah Rubin Blanshei, Leiden-Boston, Brill, 2018, pp. 297-298 e 299.

[5] Floriano Dolfi, Orazione in difesa della patria (1502), a cura di V. Giusti, Bologna, Zanichelli, 1900.

[6] Ioannes Crottus, Consilia sive responsa, Liber secundus, Venetiis, ex Officina Damiani Zenari, 1576, Consilium 184, pp. 66r-73r.

[7] Delle diverse istruzioni agli ambasciatori, contenute nel fondo dell’Archivio di Stato di Bologna, Comune, Governo, Consigli ed ufficiali, Magistrature ad ambascerie, b. 3, ho dato conto già in A. De Benedictis, Repubblica per contratto, cit., pp. 156-160.

[8] Riferimenti specifici in A. De Benedictis, Una guerra d’Italia, una resistenza di popolo, cit., soprattutto pp. 58-67.

[9] Autografoteca Campori, Dolfi Floriano, con il titolo Dicembre 1502. Orazione fatta da Floriano Dolfi per Alessandro VI ​(Proprietà Comune di Modena, in deposito permanente presso la Biblioteca Estense Universitaria di Modena). Sulla raccolta Campori, cfr. Collezionare autografi. La raccolta di Giuseppe Campori, a cura di M. Al Kalak e E. Fumagalli, Firenze, Olschki, 2022. Il ritrovamento è stato possibile in base a informazioni fornite nel 2002 da Marzia Minutelli nella Nota biobibliografica a Floriano Dolfi, Lettere ai Gonzaga, edizione a cura di M. Minutelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, pp. LXVI-LXVII e LXXII. Minutelli riferiva del codice da lei fatto restaurare in vista di una edizione critica. Tale edizione è poi stata pubblicata come Floriano Dolfi Orazione contro papa Alessandro VI, edizione critica e commento a cura di M. Minutelli, Manziana (RM), Vecchiarelli, 2019. Poiché in https://opac.sbn.it/ il libro del 2019 non è catalogato (a tutt’oggi, 23 gennaio 2023), ne ho acquistato una copia direttamente dall’editore. In Dolfi, Orazione contro papa Alessandro VI, cit., p. 20-21, Minutelli ripete l’occasione del ritrovamento dell’originale, e nella Descrizione del testimone, ibidem, pp. 24-26, afferma come l’edizione di Vincenzo Giusti del 1900 avesse sostanzialmente rispettato «lo sviluppo logico del discorso dolfiano» (p. 25).

[10] Raccolta Campori, Camp. App. 309=Gamma.T.1.3, Consilium Domini Ioannis Croti de Monferrato in Causa Reipublicae Bononiensis Adversus Summum pontificem editum VI ​(Proprietà Comune di Modena, in deposito permanente presso la Biblioteca Estense Universitaria di Modena). Nella Appendice prima al Catalogo dei codici e manoscritti posseduti dal marchese Giuseppe Campori compilata da Raimondo Vandini. Dal secolo XIII al secolo XIX inclusive, Modena, Tipografia di Paolo Toschi e C., 1886, p. 117, n. 309, viene specificato che «il manoscritto cod. cart. in fol. di carte 35, sec. XVI, … porta in fine l’autentica di mano del Croti col suo suggello».

[11] https://iris.unimore.it/handle/11380/1282677

[12] M. Fanti, La bolla “della maledizione” di Giulio II: il ritrovamento dell’originale, in Città in guerra: esperienze e riflessioni nel primo ‘500. Bologna nelle “guerre d’Italia”, Atti del Convegno internazionale di studio, Bologna 10-11 novembre 2006, a cura di G. M. Anselmi – A. De Benedictis, Bologna, Minerva Edizioni, 2008, pp. 269-274. Una riproduzione dell’originale si può vedere nella scheda del volume in https://opac.sbn.it/

[13] A. De Benedictis, Una guerra d’Italia, una resistenza di popolo, cit., p. 101-114.

 

Di Giovanni Belardelli

(Il Foglio, 17 settembre 2022)

subito dopo la morte di Elisabetta II più d'uno ha richiamato il celebre volume di Ernst Kantorowicz i due corpi del Re (Einaudi). In estrema sintesi, il libro analizza l'idea, che si afferma a partire dalla teologia politica medievale, secondo la quale il sovrano possiede, oltre a un corpo naturale destinato ad ammalarsi e a morire, anche un corpo politico che gli sopravvive poiché rappresenta la perennità del potere sovrano. La formula che tutti conosciamo “il re è morto, viva il re “evidenzia questa indipendenza della sovranità dalla vita di un certo particolare sovrano. Bene, il rinvio al libro di Kantorowicz, Tanto più alla morte di colei che l'opinione globale sente essere l'ultima vera regina, è molto suggestivo. Ma anche del tutto sbagliato.

Quel discorso sui “due corpi del re” valeva per l'antico regime, quando l'autorità sovrana coincideva con l'esistenza stessa della nazione: Luigi XV, re di Francia , affermò per esempio nel 1766: “il mio popolo esiste solo attraverso la sua Unione con me; i diritti e gli interessi della nazione […] risiedono unicamente nelle mie mani”. È necessario dunque, possiamo aggiungere, che la regalità sia immortale perché lo stesso popolo francese, che esiste solo in Unione con il re, possa sopravvivere al fatto contingente della morte di quest'ultimo.

Non molti anni dopo, però, doveva cambiare tutto. La testa è di Luigi XVI cadeva sotto la lama della ghigliottina il 21 gennaio 1793, ma il corpo immortale del re si era già dissolto da qualche tempo. Con la Rivoluzione francese, infatti, l'unione tra monarchia e popolo si era spezzata e la sovranità si era trasferita dal primo al secondo: il popolo diventava il vero sovrano. Per la verità l’art.3 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino sosteneva che “Ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione”, non dunque nel popolo; questo avveniva per l'intenzione di evitare i rischi di una democrazia radicale e aprire la strada a un sistema rappresentativo non ancora a suffragio universale.  ma la piena affermazione della sovranità popolare era un esito inarrestabile (“La sovranità risiede nel popolo”) proclamava la nuova Dichiarazione del 1793) e nazione e popolo sarebbero diventati sinonimi. Da allora, nelle democrazie, a possedere un corpo incorruttibile, che dunque non muore (anche se forse si ammala, come mostrano tante vicende contemporanee: ma questo è un altro discorso), a non morire  – dicevo – e il popolo come entità collettiva e se vogliamo mistica, poiché non coincide con la semplice somma dei cittadini che lo compongono. Il re costituzionale ormai, anche quando sono circondati da un'amministrazione  e un affetto globali come Elisabetta II, hanno un solo corpo, Che subisce gli oltraggi del tempo e infine muore come quello di tutti noi.

Ma forse, fatta questa precisazione, c'è ancora qualcosa che resta da dire. riandiamo un momento alla fine della peculiare mortalità del sovrano – del suo secondo corpo – che si verifica con la Rivoluzione francese. la nazione, che ora è diventata sovrana, si dota in molti paesi di una rappresentazione femminile che rimpiazza quella del corpo del re. Si tratta di un'allegoria di donna che diventa celebre soprattutto in Francia. E in Francia ha avuto anche, da un certo punto in poi, un nome proprio, Marianne. Nel nuovo clima ottocentesco che vede al centro della vita associata alla nazione, quasi tutti gli Stati europei – sia quelli esistenti sia quelli che aspirano, come l'Italia, esistere come paesi indipendenti e sovrani- si rappresentano attraverso allegorie femminili di questo tipo; si moltiplicano perciò le immagini di donna che raffigurano Germania, Italia, Francia, Svizzera e così via (compresi gli Stati Uniti). la nazione assume le sembianze femminili per tante ragioni, a cominciare dal fatto che una tale immagine rinvia alle capacità generatrici della donna, dunque alla fertilità e per analogia alla prosperità di tutta la collettività nazionale. La donna-nazione  è un'immagine materna e protettiva (si parla della madre-patria), personifica la continuità di un paese al di là del cambiamento dei regimi politici, delle guerre e delle sconfitte, dei passaggi da una monarchia alla repubblica (o viceversa): Rappresenta dunque la perpetuità dell'esistenza di una nazione, il suo “corpo” immortale.

Cosa c'entra con tutto questo la regina inglese appena scomparsa? C'entra, perché non è da escludere che una sovrana che ha regnato per un tempo incredibilmente lungo, riscuotendo un'eccezionale successo in termini di simpatia e rappresentando per i suoi sudditi una figura materna e protettiva, simbolo dell'identità nazionale, sia diventata in qualche modo, decennio dopo decennio, l'allegoria femminile del suo paese. Avendolo accompagnato con equilibrio lungo una storia spesso complicata ha finito per essere una specie – viene da dire – di Marianne britannica. In questo senso, è vero che nessun re (e nessuna regina) hanno più da tempo il “secondo corpo”dei sovrani di antico regime. Ma nell'immaginario dei suoi sudditi, e un po’ anche nel nostro, la sua immagine fa tutt'uno con quella del suo paese.

Porto alla conclusione di queste celebrazioni del 78° anniversario
della Liberazione, qui a Melfi, il saluto affettuoso a tutti i melfitani della Fondazione intitolata a Francesco Saverio
Nitti (che ha tra i suoi soci fondatori anche l’Associazione di cittadini intitolata a Nitti di cui sono parte un centinaio di cittadine e cittadini di Melfi), ricordando ancora una volta in questa
occasione del 25 aprile non solo lo statista che fu Nitti, che arrivò a guidare il governo italiano in uno dei più difficili momenti della storia del ‘900, tra le insorgenze sociali del dopoguerra e soprattutto nella tenaglia costituita dal massimalismo di sinistra e
l’affermazione del fascismo a destra, ma ricordando l’alto prezzo che Nitti pagò per il suo, esplicito dall’inizio, antifascismo: la casa distrutta, le minacce anche qui in Basilicata, l’esilio con tutta la famiglia che durò vent’anni, il carcere nazista durante la guerra.
Per storie come questa, migliaia di queste storie, per il sacrificio di tanti italiani durante la Resistenza, il giorno della Liberazione è diventato costituzionalmente festa nazionale.
Dunque, la banda comunale che apre i cortei in tantissimi comuni italiani, i gonfaloni di istituzioni e associazioni democratiche, i sindaci che sfilano con la sciarpa tricolore insieme ai cittadini, non sono segni retorici, non sono una pura coreografia.
Sono il rito civile che la Repubblica ha immaginato, attraverso i costituenti, per non dimenticare e per trasmettere la memoria delle determinazioni della storia.
Dopo dittatura, guerra, occupazione, guerra civile, l’Italia e l’Europa riacquistano la pace e comprendono che una cosa è il valore della parola “nazione”, un’altra cosa è il rischio funesto della parola “nazionalismo”.
Come tutti voi anch’io ero nel corteo di oggi, come quello degli anni passati.
Percepivo simboli e compostezza, pensieri e memorie.
E vedevo ai balconi anche sguardi, talvolta partecipativi, talvolta silenziosi e inerti.
C’è un’Italia che partecipa; c’è un’Italia che sta alla finestra; c’è un’Italia che prende le distanze.
Nei cortei come nelle urne, nelle celebrazioni come nel dibattito pubblico, giovani e meno giovani rappresentano valori ma anche si astengono dal tenerne viva la memoria.
Ecco perché istituzioni e sistema educativo, insieme ai media, hanno il compito di tenere attive le condizioni per sapere, per valutare, per partecipare.
Aver sentito qui un attimo fa gli argomenti dei giovanissimi è incoraggiante, avere visto le scuole attive e creative attorno al tema della crisi delle libertà e dei diritti umani e civili nel mondo è confortante. Ma il dato di incomprensione, di astensione, di confusione sul senso della storia che ci circonda deve farci interrogare a fondo.
Abbiamo avuto notizia questa mattina – io ho potuto solo leggere frammenti riportati in rete, non tutto – della dichiarazione della presidente del Consiglio sulla “incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo”. Una dichiarazione in sé accettabile, che pare ancora con sfumature attorno non chiare (libertà non liberazione, patrioti non partigiani, eccetera). In
ogni caso che fa sperare almeno sugli elementi fondamentali un allineamento di posizione almeno di chi ricopre alte funzioni istituzionali.
Limiterò a due argomenti di testimonianza il senso di attualità del fare insieme “rito civile” non solo per dare corpo al pensiero collettivo, ma per rivivere il rischio, il coraggio, la visione di chi ha pagato alti prezzi per consentirci oggi la libertà di votare, scegliere,
discutere, dissentire.
C’è un episodio del dibattito in età repubblicana su fascismo e antifascismo che spiega con la comprensione di tutti la sostanza del problema storico. Vittorio Foa, esponente del Partito di Azione nel CLN, risponde al sen. Giorgio Pisanò, eletto nel gruppo del Movimento Sociale Italiano. “Vedi, la questione è semplice. Se vincevate voi io sarei finito in galera, ma siccome abbiamo vinto noi tu sei senatore della Repubblica”.
E su questa scia porto qui in conclusione la testimonianza di Maria Luigia Baldini Nitti – figlia di Nullo Baldini e nuora di Francesco Saverio Nitti – che è stata vicinissima alla creazione della nostra Fondazione di cui è stata presidente onoraria, incarcerata a Ravenna perché figlia del capo socialista della cooperazione italiana e poi in esilio a Parigi per lunghi anni, leggendovi alcuni passi di una sua lettera del 1983 al giornale Il Nuovo Ravennate in
risposta al consigliere comunale dell’MSI Gianguido Reggiani che l’accusava pubblicamente di discriminazione perché “non disposto – scriveva lui a quel giornale – a rinegare il passato
per opportunismo”.
Ecco la risposta della “Pimpa” (questo il suo popolare soprannome) all’esponente del Movimento Sociale:
“Per avere conosciuto sulla mia pelle il significato esatto della parola ghettizzazione (che lei usa) non accetterò mai che ogni persona umana non venga rispettata come tale e non goda
dei diritti civili. Questo qualunque sia la sua etnia, fede politica, religione. In questo senso non credo che lei possa considerarsi “ghettizzato”. Lei può girare per le vie senza vedere gente che scantona per non incontrarla. O conoscenti che fingono di non vederla e cambiano marciapiede. Lei può esercitare liberamente la sua professione di avvocato, allora che io – che pure mi ero laureata con la media del trenta e lode e tre lodi, di cui una in diritto civile, l’altra in diritto romano e ricevuto il premio “Vittorio Emanuele II” per la miglior tesi dell’anno nella facoltà di Giurisprudenza – non potei divenire procuratrice legale perché non
iscritta al fascio. Lei può viaggiare all’estero ogniqualvolta questo le piaccia. Io ebbi rifiutato per anni il passaporto e per tutti quegli anni girai, nel timore di un mio espatrio clandestino, continuamente seguita da un agente di polizia che mi sorvegliava a vista, entrava con me nelle case in cui mi recavo e fin dentro la stanza in cui ero, dormiva davanti alla porta della stanza d’albergo in cui soggiornavo e una volta pretendeva di entrare con me nello spogliatoio di una sartoria. Se questo non significasse mettere al bando della società, lo domando a lei. E al contempo mi permetto di farle presente che tali vessazioni non sono oggi esercitate verso sia pure un solo aderente al Movimento Sociale Italiano. Inoltre, lei è stato liberamente eletto.
Deputati e Senatori dell’MSI siedono nel Parlamento repubblicano, prendono parte alle sue commissioni. Nessuno dei diritti civili riconosciuti agli italiani dalla Costituzione vi viene negato e la parità dei diritti che ogni minoranza deve godere è oggi rispettata. Lei mi chiede se non ritengo che già troppo sangue italiano sia stato versato e da una sole delle parti. Le rispondo che non ho mai accettato il mito soreliano della violenza. Dalla violenza sono stata
vaccinata in gioventù, quando udii le grida di chi veniva selvaggiamente percosso e conobbi persone che poi vennero uccise da scherani fascisti. Per me la violenza, di qualunque colore si ammanti, è cosa abominevole ed è indice di quella mentalità fascista che esaltò, praticò ed insegnò la violenza gli italiani. Se ritengo che la situazione attuale del Paese richieda la collaborazione sincera e senza remore dei partiti politici smussando gli angoli di quanto li divideva, ritengo questo limitatamente ai partiti che accettano apertamente i principi della Costituzione repubblicana”.
Restano questi, a mio avviso, parametri validi di giudizio per la storia e per il presente. Per le vicende nostre interne e per le sofferenze di altri Paesi. In un epoca in cui persino una guerra ingiusta torna a mostrare che in Europa il diritto non ha debellato la violenza per sempre.

25 aprile 2023

[Fonte: http://www.associazionefsnitti.org/]

di Nadan Petrovic, Università degli studi di Roma “La Sapienza”

 

Negli ultimi tempi, la già precaria situazione nei Balcani occidentali si è aggravata sotto molti aspetti, fino ad arrivare a sfiorare nuovi conflitti armati. Lo “status quo” definito dagli Accordi di Dayton del 1995 e di Kumanovo del 1999 – che posero fine rispettivamente alla guerra in Bosnia Erzegovina e al Kosovo – è caratterizzato dal ciclico riproporsi di alcuni problemi che vanno dall’irrisolta “questione kosovara”, ai tentennamenti della Serbia nell’intraprendere una definitiva direzione europea, alla situazione politica estremamente tesa in Montenegro, fino ad arrivare alle frustrazioni delle attese della Macedonia del Nord e dell’Albania connesse al processo di adesione all’Unione Europea.

In tale contesto, la parola è tornata, il 2 ottobre 2022, agli elettori in Bosnia Erzegovina. Questi dovevano scegliere, nel quadro di uno dei più complessi e macchinosi sistemi istituzionali a livello internazionale, sia i tre membri della Presidenza collegiale, sia i loro rappresentanti nel Parlamento centrale, nonché in quello delle due Entità costitutive del Paese, Repubblica Srpska e Federazione della BiH.

Prima di passare all’esito della consultazione elettorale vanno fatte tuttavia due doverose premesse. Ai sensi degli Accordi di Dayton, la Bosnia Erzegovina è suddivisa in due entità, la Federazione della Bosnia Erzegovina (nota anche come Federazione “croato-bosgnacca”), costituita sul 51% del territorio e, Repubblica Serba di Bosnia, formata sul restante 49% del territorio (abitato, a seguito delle divisioni etniche e territoriali belliche, prevalentemente della popolazione serbo-bosniaca). Ai sensi della Costituzione che è parte integrante degli Accordi di Dayton. il Paese è governato da una Presidenza collegiale (composta da tre membri, ognuno dei quali viene eletto dai rispettivi gruppi etnici di appartenenza), da un Parlamento bicamerale e dal Consiglio dei Ministri. Tuttavia, anche ciascuna delle due entità possiede una propria Costituzione nonché dei propri organi legislativi ed esecutivi autonomi (presidente, parlamento – monocamerale nella Repubblica Srpska e bicamerale nella Federazione - e governo). La particolarità dell’organizzazione statale-amministrativa bosniaco erzegovese – formalmente uno stato centrale con una forte e peculiare modalità di decentramento (si noti, tra l’altro, che una delle due unità viene denominata Federazione) – non finisce qui: anche all’loro interno le due entità “decentrate” sono articolate in maniera molto eterogenea. Mentre la struttura della Repubblica Srpska risulta centralizzata, la Federazione è articolata in tre livelli (la Federazione, i cantoni e le municipalità). Tale complessa (e costosa) struttura istituzionale e insieme causa ed effetto di una pluridecennale tensione tra chi vorrebbe rafforzare il livello centrale (prevalentemente i partiti a maggioranza bosgnacca) e chi invece privilegia la fortissima autonomia delle entità (parte serbo-bosniaca, senza nascondere, anche dichiaratamente, la volontà di unire un giorno il territorio della Repubblica Srpska alla Serbia); più ambigua la posizione dei croati bosniaci, favorevoli al rafforzamento centrale ma nei fatti più interessati ad una forte autonomia dei cantoni a maggioranza croata e, idealmente, alla creazione di una terza entità.

Per comprendere meglio il quadro della situazione va sottolineato un ulteriore dato di fatto, riportando le lancette dell’orologio molti anni indietro, nel lontano novembre 1990, ovvero alla data delle prime elezioni “libere” in Bosnia Erzegovina (successive cioè alla caduta del Muro di Berlino). A queste stravinse una coalizione dei partiti d’ispirazione nazionalista composti dal Partito d’azione democratica – SDA (partito etnico dei bosgniacchi), della Comunità democratica croata - HDZ e del Partito Democratico Serbo -SDS. Al fine di prevalere sul fronte contrapposto - rappresentato principalmente dagli ex comunisti confluiti in Partito socialdemocratico (SDP) e dalla cosiddetta Alleanza delle Forze Riformiste (SRSJ za BiH), in rappresentanza delle forze politiche e sociali di orientamento “civico” – i tre partiti etnici, che non ‘competevano’ tra loro in merito a un potenziale elettorato, si proposero in una coalizione formale. Grazie alle mirabolanti promesse, questi presero il potere e installarono un sistema tripartito di governo a tutti i livelli. Purtroppo, come del resto era prevedibile, l’incanto durò pochissimo: la coalizione vincente non riuscì a raggiungere un accordo su nessuna singola questione e nel giro di pochi mesi la Bosnia Erzegovina rimpiombò nel caos politico-istituzionale e, successivamente, nell’aprile 1992, in un sanguinoso conflitto. Ma al danno della guerra seguì la beffa della fase post-bellica. I partiti vincitori delle elezioni nel 1990 - che si scontrarono duramente, non solo politicamente - durante la guerra, continuarono a governare il paese anche dopo gli Accordi di Dayton riproponendo ciclicamente temi nazionalisti e creando ad arte i problemi etnici al fine di risvegliare antiche paure e rivendicazioni di tipo estremistico. L’unico cambiamento politico di rilievo avvenuto in oltre trenta anni di declino, è rappresentato dall’affermarsi stabilmente al potere nella Repubblica Srpska - al posto del SDS, il cui leader Radovan Karadzic fu processato e condannato per i crimini di guerra dal Tribunale speciale per la ex Jugoslavia - di Milorad Dodik e del suo Partito dei socialdemocratici indipendenti (l’SNSD), che hanno tuttavia da tempo abbandonato le posizioni socialdemocratiche a favore di quelle nazionaliste e che sono divenuti, da beniamini delle socialdemocrazie occidentali, i principali stakeholder della Federazione russa nella regione. Al netto di questo cambiamento, i tre partiti (l’SDA, l’HDZ e l’SNSD al posto dell’SDS), nonostante molti anni di politiche fallimentari, hanno continuato a monopolizzare le sorti del Paese, creando un sistema di potere tri(etno)partitico ed emarginando ogni forma di opposizione.

In tale contesto, il risultato elettorale, pur carico di qualche novità sul piano politico aggiunge ulteriori incognite alla di per sé complessa realtà politico-istituzionale.

La prima novità consiste in un moderato successo, specialmente nella Federazione BiH  del blocco dei partiti bosniacchi e civici della c.d. “Coalizione dei otto”. Tale blocco, composto dal Partito socialdemocratico della Bosnia-Erzegovina (SDP), Narod i Pravda (NiP), Il nostro partito (NS), il Partito per la BiH (SBiH), l'Iniziativa della Bosnia-Erzegovina Fuad Kasumović, il Movimento di azione democratica (PDA), la Lista Indipendente della Bosnia ed Erzegovina (NES) e del Partito per la nuova generazione (ZnG), il cui denominatore comune consiste nel fatto di non cercare semplicemente il voto non etnico, è riuscito a far eleggere – per la prima volta dal 1990 – quale rappresentante “eletto tra le file del popolo bosniaco-mussulmano”, un esponente dell’opposizione (e non del  Partito d’azione democratica -SDA). Inoltre, anche tra le file del popolo croato-bosniaco, è stato eletto – in questo caso per la seconda volta – un rappresentante di un piccolo partito dell’opposizione (del Fronte democratico, che non fa parte della Coalizione degli otto) e non quello espresso dalla Comunità democratica croata - HDZ. Per quanto riguarda il terzo membro della Presidenza collegiale, “eletto dalle file del popolo serbo-bosniaco” è stato confermato invece il candidato del SNSD.

La seconda novità – in un certo senso anche più rilevante in quanto i poteri dei membri della Presidenza siano in realtà molto limitati, consiste nel raggiungimento di un accordo per la costituzione del Governo centrale tra il SNSD, HDZ e la “Coalizione degli otto” nonché di Governo della Federazione della BiH tra questi ultimi due (HDZ e “Coalizione degli otto”). In altre parole, senza il Partito di Azione Democratica (SDA), che ha formato la maggioranza dei governi del Paese dalla fine della guerra nel 1995.

Secondo i suoi promotori, l'accordo, annunciato come “storico”, dovrebbe cambiare il clima politico nel Paese. Lo stesso è stato raggiunto peraltro in tempi record per gli standard bosniaco-erzegovesi: il processo di nomina del Consiglio dei ministri della Bosnia-Erzegovina dovrebbe essere completato nei prossimi giorni laddove per la nomina del Governo uscente si dovettero aspettare ben quattordici mesi. .

Li finiscono però le novità (o, a secondo del punto di vista, buone notizie). Sebbene la nuova coalizione si sia detta “programmatica” ovvero tesa ad occuparsi dei problemi della vita dei cittadini (i nuovi partner della coalizione si sono concentrati su ciò su cui possono essere d'accordo e hanno deciso di mettere da parte le loro differenze) alcune divergenze di fondo appaiono davvero incolmabili. Ad esempio, quelle relative alla collocazione internazionale del Paese - con il SNSD che si oppone con forza all’adesione alla NATO, ma nei fatti anche all’UE – nonché in relazione all'organizzazione interna del Paese. Inoltre, non è del tutto chiaro come dovrebbe funzionare effettivamente la nuova maggioranza parlamentare, a causa di una coalizione insolitamente ampia che includerà almeno dieci partiti - le cui opinioni politiche variano dall'estrema destra all'estrema sinistra - ma anche a causa delle minacce del Partito di azione democratica (SDA) di far bloccare tutti i provvedimenti importanti nella camera alta del parlamento federale. Infatti, la stessa SDA, pur rimanendo fuori dell’accordo di Governo ha vinto individualmente il maggior numero di mandati nella Federazione BiH. Ecco che allora, in una specie di giostra orientale, dove le possibili unioni politiche nascono e muoiono nell’arco della stessa giornata, tutto rimane ancora molto incerto.     

Il che, al di là di tutti tecnicismi, riporta al nocciolo della questione: in un quadro di totale paralisi politica - istituzionale (basti citare che il governo della Federazione BiH era in "mandato tecnico" per tutto il periodo tra le due elezioni) ed economico-sociale, né le prospettive mirabolanti non realizzate, né i clamorosi insuccessi in tutti campi ha tuttora privato i partiti di ispirazione nazionalista (SDA, HDZ e SNSD) di un importante consenso popolare. Quale il risultato, ad oltre venticinque anni dagli Accordi di Dayton, il paese risulta diviso in territori etnicamente omogenei, senza efficienti istituzioni comuni e con un’economia prevalentemente assistita mentre registra tassi di emigrazione senza precedenti (secondo le stime della Banca Mondiale, la Bosnia-Erzegovina è diventata oggi il paese che sta perdendo la sua popolazione più velocemente).

Quando si scriverà la storia dei paesi Est europeo a seguito del processo di democratizzazione avviato dalla caduta del Muro di Berlino, Bosnia Erzegovina di certo non sarà ricordata come una “success story”.

 [pubblicato il 17/01/2023]

di Paolo Borioni

2 settembre 2022

Gli anni di Gorbachev possono essere interpretati da diversi punti di vista, ma il mio personale approccio alla ricerca storica e le mie ricerche  riguardanti il socialismo europeo mi portano a proporre quello di una fecondazione, in parte non intenzionale ma certo non casuale, fra culture politiche sparse per l’Europa e capaci di circoli virtuosi. Willy Brandt di sicuro diede inizio ad una semina e ad una contaminazione decisiva. Ciò avvenne prima con la Ostpolitik varata al tempo della sua cancelleria, poi, in seguito alle controverse dimissioni del 1974, con la sua presidenza dell’Internazionale Socialista (1976): rafforzando e rinnovando il socialismo europeo, costruendogli intorno nuove reti e seminando in tutto ciò ovunque concetti capaci di fruttificare.

Ad esempio esiste una gran differenza fra la Ostpolitik di Merkel e quella di Brandt: quella di Merkel ha confidato pressoché esclusivamente sulle virtù (troppo spesso credute autosufficienti) del commercio pacificante e dell’interdipendenza economica. Sempre dubbiosa (come del resto la Francia e l’Italia) rispetto all’allargamento della NATO, la Germania ha così pensato che la propria  capacità commerciale potesse bilanciare le insidie d’una sicurezza NATO che moltissimi osservatori ed esperti sapevano essere troppo unilateralmente perseguita. Si è pensato lungamente che l’interdipendenza commerciale potesse prevenire il frutto velenoso della “sicurezza unilaterale” dell’Occidente, ovvero la sfiducia e poi l’aggressività russa in Ucraina. Invece, l’insufficienza dell’approccio ha mutato l’interdipendenza in sfiducia aperta (da parte russa) e in dipendenza energetica (da parte tedesca e non solo).

Le strade aperte dalla Ostpolitik di Brandt, ma soprattutto l’opera internazionalista di Brandt e dei socialisti in genere, invece costruì iniziative, concetti e reti orientate a produrre un’interdipendenza non solo economicista, e una moltiplicazione della fiducia in molti campi. Ciò anche per risolvere il dilemma tedesco: continuare (certo) a crescere come potenza economica, ma affermandosi anche come attore politico di primo piano, e creando al contempo tutte le condizioni per dissociare permanentemente questo ruolo dall’identità di potenza militare. Per fare ciò occorreva coerenza etico-ideologica e senso della storia (che non mancava ovviamente a Brandt, o a Kreisky, per le esperienze vissute fra le due guerre), benché tutto ciò non fosse disgiunto dal realismo politico.

La comparazione fra l’oggi e l’epoca di Gorbachev ci dice che la natura delle culture politiche nazionali (o sovranazionali) poste in circolazione può produrre interazioni virtuose o viziose nelle relazioni internazionali. Può per esempio completare l’effetto insufficiente delle relazioni commerciali, o al contrario contribuire a far puntare ingannevolmente sulla sua sufficienza.

L’affermarsi politico di Gorbachev e poi della sua proposta di distensione si comprende insomma meglio ricordando che non solo Brandt, ma in genere i leader dell’internazionalismo socialista si aprirono a culture politiche di un socialismo diverso (da quello “spurio” del New International Economic Order a quello sudamericano) sulla base (fra l’altro) di un’idea ampliata e progressiva di cosa causasse l’instabilità, e dunque di cosa favorisse le tensioni internazionali.

L’approccio “cold warrior” (semplificando) faceva coincidere grandemente l’instabilità con la manovra occulta dell’avversario strategico, per esempio in Sudamerica. Quello dell’Internazionale Socialista, sempre più attiva ed accogliente nel sud del mondo, era che la radice almeno principale dell’instabilità fosse socio-economica. Questo giudizio di base si afferma particolarmente durante la presidenza Brandt dell’Internazionale Socialista che si protrae per tutti gli anni 1980, ma era già componente essenziale della visione di paesi in cui il socialismo democratico era egemonico: dai neutrali come Svezia e Austria, ai membri Nato come Norvegia, Danimarca e Paesi Bassi (presto anche i paesi iberici di Gonzales e Soares).

Ciò era connesso ad altri due elementi presenti e fortemente interattivi nell’Internazionale Socialista: c’era l’esigenza di uscire dai classici confini europei della socialdemocrazia ovvero, come accennato sopra, sia di farsi carico dei problemi di sviluppo del Sud del mondo, sia di aprirsi a socialismi diversi e nuovi.

Ma c’era anche un altro elemento importante: tramutare la storia socialdemocratica recente dei paesi occidentali in proiezione internazionalista. La generazione socialista al potere dagli anni 1960 in poi era particolarmente adatta a mettere a frutto la realtà storica per cui, in misura diversa,  i paesi della socialdemocrazia (Svezia, Austria, Germania, tutti) avevano acquisito stabilità solo con la riforma profonda delle rispettive società ed economie capitalistiche.

Era del resto per questa via che si rifiutava anche la dottrina “realista” della stabilità come prodotto esclusivo dell’equilibrio di potenza.  Per sostenere invece la riduzione dell’instabilità mediante la lotta alle disuguaglianze globali, un nuovo rapporto Nord-Sud e molto altro: questo fu la Commissione Brandt, almeno inizialmente promossa dalle alte sfere della Banca Mondiale.

Ma questa complessa maturazione dell’ internazionalismo socialista (non certo sviluppato fino a pochi lustri prima) conduceva conseguentemente, al momento inevitabile di affrontare anche il negoziato sulla sicurezza, a generare un altro concetto: non l’equilibrio del terrore, ma la sicurezza condivisa. Eccoci ad una ulteriore idea-base ormai assente da decenni, ed all’istituzione che la elaborò in modo definitivo: la commissione Palme. È peraltro proprio mediante questa commissione che la semina di concetti ed idee diviene sistematica e il rapporto fra le varie facce dell’internazionalismo socialista e Gorbachev si fa più stringente. Olof Palme comincia a presiedere la commissione quando (come quasi mai capita) il suo partito socialdemocratico non è al governo. Eppure i frutti non tardano a venire anche perché le reti di esperti e statisti (consolidati o in divenire) formatesi nei lustri precedenti vi trovano una congiunzione. Nella commissione a generare il concetto di “sicurezza condivisa” sono numerose e importanti personalità capaci di riportarne nei propri paesi l’impulso. Ma anche di mettere a frutto l’appartenenza a reti di leader, futuri governanti, influenti esperti e consiglieri. Fra di essi il sovietico Georgi Arbatov, direttore di lungo corso dell’ISKAN, centro per lo studio di USA e Canada. Ma anche (fra i molti) Harlem Bruntland e Joop Den Uyl, la norvegese e l’olandese presto a capo di due paesi Nato. Cui si potrebbe aggiungere Bahr e Brandt in Germania, Holst in Norvegia, Gareth Evans in Australia; oltre a Palme, Theorin, Dahlgren in Svezia, David Owen nel UK; Cyrus Vance negli USA; Obasanjo and Ramphal nel sud del mondo. Arbatov, che considerò la Commisione Palme degna di una definizione apposita (INGO: ovvero organizzazione non governativa internazionale), afferma nelle sue memorie che il rapporto della Commissione fu decisivo affinché Gorbachev diffondesse l’idea di sicurezza condivisa nel proprio paese. E puntualizza che le reti di decisori strettamente connesse alle elaborazioni della commissione andarono anche oltre le partecipazioni esplicite, estendendosi a Rajiv Ghandi, Bruno Kreisky, Pierre Trudeau, Bettino Craxi e Ingvar Carlsson, che avrebbe sostituito Palme come primo ministro di Svezia dopo l’assassinio del 1986.

Un altro sovietico come Andrei Kokoshin, anche lui alla guida dell’ISKAN e forse il più influente esperto sovietico di difesa degli anni 1980 (tanto da assurgere a ministro della difesa nel 1992), afferma la grande importanza della commissione Palme nello sviluppo della proposta Gorbachev. Sarà insomma possibile all’URSS, guidata dallo statista russo appena scomparso, promuovere la “sicurezza condivisa” e la “difesa non offensiva” (altro concetto elaborato negli ambienti della Commissione Palme) nella comunità internazionale degli anni 1980. Per rendere possibile questo fu decisivo il coraggio di Gorbachev e le sue grandi visioni, ma  anche il fatto che i “falchi” del PCUS non poterono accusarlo di astrazione dalla comunità internazionale e dal mondo reale. Ciò significa ricordarlo con tutto l’humus di idee che negli anni 1980 gli permise di non reagire aggressivamente alla superiorità USA e alla pericolosa sfida di Reagan (con cui un Brandt ancora decisivo nella SPD e nella internazionale socialista entrò in aperto contrasto) favorendo invece una straordinaria stagione di fiducia.

Quella di Gorbachev fu insomma un’epoca in cui si cercò di generare una contaminazione dinamica. Si tentò di abbandonare dottrine troppo legate alle fissità: di superare il puro equilibrio di potenza realista, di distanziarsi dalle eterne e immutabili leggi geopolitiche, di dismettere la dottrina delle democrazie per definizione mai aggressive e dunque (paradossalmente ed insostenibilmente) autorizzate all’espansione. Si cercò al contrario di puntare, mediante reti e istituzioni internazionali, sulla diffusione di contenuti cooperativi nei “depositi” ideali nazionali. Il concetto di “deposito’, peraltro, si adatta anche a definire le caratteristiche e gli atteggiamenti dei diversi paesi senza autorizzare fissità o determinismi. “Deposito” è qualcosa di composito e di variabile. Esso reca elementi del passato, anche geopolitici, ma non è una fissità, nemmeno rispetto a quali elementi dei depositi nazionali vengono privilegiati in un certo contesto storico, o a come essi vengono combinati per ottenere sintesi nuove.

La SPD di Brandt aveva mutato il proprio deposito ideale nazionale costruendo a sua volta nuovi percorsi e finalità per l’affermazione dell’interesse tedesco. Ed aveva, con altre socialdemocrazie, reso globale l’impatto dell’Internazionale Socialista. La “sicurezza condivisa” e la “difesa non offensiva”, cui aveva grandemente contribuito il socialismo internazionale, avevano poi integrato il “deposito” nazionale sovietico. Ciò rese più facile e più sostenibile la leadership di Gorbachev, che  cercava modi non aggressivi di reagire alla sfida strategica ed ideologica di Reagan. Anche perché sapeva che l’URSS non l’avrebbe retta.

La situazione odierna, viceversa, si spiega con il ricorso, già da anni, ai contenuti meno cooperativi dei depositi nazionali ed ideologici. Così, invece che culture e reti politiche capaci di circoli virtuosi, si sono affermate, ben prima del 24 febbraio, troppe fissità e vieti conformismi.

 

 

 

 

 

Una pagina di Franco Venturi suggerita da Dora Marucco.

Brano tratto da “F. Venturi - La democrazia in Italia. Note di uno storico” (testo pubblicato in traduzione russa 11 settembre 1984, ora in F. Venturi, Scritti Sparsi a cura di G. Franzinetti ed. Tortarolo, Torino Nino Aragno 2022, pp 429 - 430


In mezzo alle macerie del fascismo due pilastri restavano in piedi, malgrado la forte scossa impressa anche dalla resistenza, e cioè lo stato e la chiesa. Lo stato era addirittura spezzato in due, tra nord e sud, e una guerra civile ne era risultata. Eppure lo stato, la sua burocrazia, la sua lentezza, la sua inefficienza tornò immediatamente a galla, appena finita la guerra. Da monarchico divenne repubblicano, da strumento di dittatura si fece costituzionale. Ma per mille aspetti non mutò. L'epurazione degli elementi compromessi col fascismo fu del tutto insufficiente (anche grazie alle disposizioni volute da Togliatti quando era ministro della giustizia). Mancò qualsiasi tentativo di creare uno stato diverso e nuovo, di fondare scuole per i funzionari, fissare criteri di selezione e di controllo che non fossero quelli polverosi e corporativi del passato. Tutto lo sforzo della classe dirigente si concentrò sulla costituzione, questo palladio della libertà riconquistata. Costituzione effettivamente democratica, capace di garantire i diritti dei cittadini e dei gruppi, profondamente liberale, ma di cui ora, dopo quasi quarant'anni, scorgiamo chiaramente i limiti e i difetti. Il culto del diritto e delle sue forme, che la ispirò, nasceva da una naturale e sacrosanta reazione contro l'arbitrio fascista. Impedì tuttavia al legislatore e in genere alla classe politica italiana di guardare ad alcuni problemi sostanziali, i poteri del governo, la legge elettorale, la regolamentazione del diritto di sciopero, il carattere e i limiti dei sindacati - questioni tutte che furono rimandate al futuro della costituente e che attendono ancor oggi una risposta. Nell'atmosfera di entusiasmo della rivoluzione democratica parve si dovesse scegliere il più bel modello di costituzione, il più giusto ed elegante, dimenticando quanto difficile sia la democrazia nel mondo moderno, non tenendo presente abbastanza gli esempi della repubblica di Weimar, della terza repubblica francese, della repubblica spagnola. L'Italia si trovò presto ad essere, con le evidenti eccezioni di Israele e della Francia (e anche questo parve un momento piegare sotto il gaullismo) l'unico paese democratico del Mediterraneo. L'allargarsi ad altre nazioni della democrazia, negli ultimi decenni, è stato uno degli elementi essenziali che ha permesso la continuità democratica della vita politica italiana e la sua diretta ed attiva partecipazione alla comunità europea e, attraverso i suoi lavoratori, alla ripresa economica dell'Europa.

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