Finestre

Finestre sul Mondo: le trasformazioni attuali dei Paesi europei e non.

Porto alla conclusione di queste celebrazioni del 78° anniversario
della Liberazione, qui a Melfi, il saluto affettuoso a tutti i melfitani della Fondazione intitolata a Francesco Saverio
Nitti (che ha tra i suoi soci fondatori anche l’Associazione di cittadini intitolata a Nitti di cui sono parte un centinaio di cittadine e cittadini di Melfi), ricordando ancora una volta in questa
occasione del 25 aprile non solo lo statista che fu Nitti, che arrivò a guidare il governo italiano in uno dei più difficili momenti della storia del ‘900, tra le insorgenze sociali del dopoguerra e soprattutto nella tenaglia costituita dal massimalismo di sinistra e
l’affermazione del fascismo a destra, ma ricordando l’alto prezzo che Nitti pagò per il suo, esplicito dall’inizio, antifascismo: la casa distrutta, le minacce anche qui in Basilicata, l’esilio con tutta la famiglia che durò vent’anni, il carcere nazista durante la guerra.
Per storie come questa, migliaia di queste storie, per il sacrificio di tanti italiani durante la Resistenza, il giorno della Liberazione è diventato costituzionalmente festa nazionale.
Dunque, la banda comunale che apre i cortei in tantissimi comuni italiani, i gonfaloni di istituzioni e associazioni democratiche, i sindaci che sfilano con la sciarpa tricolore insieme ai cittadini, non sono segni retorici, non sono una pura coreografia.
Sono il rito civile che la Repubblica ha immaginato, attraverso i costituenti, per non dimenticare e per trasmettere la memoria delle determinazioni della storia.
Dopo dittatura, guerra, occupazione, guerra civile, l’Italia e l’Europa riacquistano la pace e comprendono che una cosa è il valore della parola “nazione”, un’altra cosa è il rischio funesto della parola “nazionalismo”.
Come tutti voi anch’io ero nel corteo di oggi, come quello degli anni passati.
Percepivo simboli e compostezza, pensieri e memorie.
E vedevo ai balconi anche sguardi, talvolta partecipativi, talvolta silenziosi e inerti.
C’è un’Italia che partecipa; c’è un’Italia che sta alla finestra; c’è un’Italia che prende le distanze.
Nei cortei come nelle urne, nelle celebrazioni come nel dibattito pubblico, giovani e meno giovani rappresentano valori ma anche si astengono dal tenerne viva la memoria.
Ecco perché istituzioni e sistema educativo, insieme ai media, hanno il compito di tenere attive le condizioni per sapere, per valutare, per partecipare.
Aver sentito qui un attimo fa gli argomenti dei giovanissimi è incoraggiante, avere visto le scuole attive e creative attorno al tema della crisi delle libertà e dei diritti umani e civili nel mondo è confortante. Ma il dato di incomprensione, di astensione, di confusione sul senso della storia che ci circonda deve farci interrogare a fondo.
Abbiamo avuto notizia questa mattina – io ho potuto solo leggere frammenti riportati in rete, non tutto – della dichiarazione della presidente del Consiglio sulla “incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo”. Una dichiarazione in sé accettabile, che pare ancora con sfumature attorno non chiare (libertà non liberazione, patrioti non partigiani, eccetera). In
ogni caso che fa sperare almeno sugli elementi fondamentali un allineamento di posizione almeno di chi ricopre alte funzioni istituzionali.
Limiterò a due argomenti di testimonianza il senso di attualità del fare insieme “rito civile” non solo per dare corpo al pensiero collettivo, ma per rivivere il rischio, il coraggio, la visione di chi ha pagato alti prezzi per consentirci oggi la libertà di votare, scegliere,
discutere, dissentire.
C’è un episodio del dibattito in età repubblicana su fascismo e antifascismo che spiega con la comprensione di tutti la sostanza del problema storico. Vittorio Foa, esponente del Partito di Azione nel CLN, risponde al sen. Giorgio Pisanò, eletto nel gruppo del Movimento Sociale Italiano. “Vedi, la questione è semplice. Se vincevate voi io sarei finito in galera, ma siccome abbiamo vinto noi tu sei senatore della Repubblica”.
E su questa scia porto qui in conclusione la testimonianza di Maria Luigia Baldini Nitti – figlia di Nullo Baldini e nuora di Francesco Saverio Nitti – che è stata vicinissima alla creazione della nostra Fondazione di cui è stata presidente onoraria, incarcerata a Ravenna perché figlia del capo socialista della cooperazione italiana e poi in esilio a Parigi per lunghi anni, leggendovi alcuni passi di una sua lettera del 1983 al giornale Il Nuovo Ravennate in
risposta al consigliere comunale dell’MSI Gianguido Reggiani che l’accusava pubblicamente di discriminazione perché “non disposto – scriveva lui a quel giornale – a rinegare il passato
per opportunismo”.
Ecco la risposta della “Pimpa” (questo il suo popolare soprannome) all’esponente del Movimento Sociale:
“Per avere conosciuto sulla mia pelle il significato esatto della parola ghettizzazione (che lei usa) non accetterò mai che ogni persona umana non venga rispettata come tale e non goda
dei diritti civili. Questo qualunque sia la sua etnia, fede politica, religione. In questo senso non credo che lei possa considerarsi “ghettizzato”. Lei può girare per le vie senza vedere gente che scantona per non incontrarla. O conoscenti che fingono di non vederla e cambiano marciapiede. Lei può esercitare liberamente la sua professione di avvocato, allora che io – che pure mi ero laureata con la media del trenta e lode e tre lodi, di cui una in diritto civile, l’altra in diritto romano e ricevuto il premio “Vittorio Emanuele II” per la miglior tesi dell’anno nella facoltà di Giurisprudenza – non potei divenire procuratrice legale perché non
iscritta al fascio. Lei può viaggiare all’estero ogniqualvolta questo le piaccia. Io ebbi rifiutato per anni il passaporto e per tutti quegli anni girai, nel timore di un mio espatrio clandestino, continuamente seguita da un agente di polizia che mi sorvegliava a vista, entrava con me nelle case in cui mi recavo e fin dentro la stanza in cui ero, dormiva davanti alla porta della stanza d’albergo in cui soggiornavo e una volta pretendeva di entrare con me nello spogliatoio di una sartoria. Se questo non significasse mettere al bando della società, lo domando a lei. E al contempo mi permetto di farle presente che tali vessazioni non sono oggi esercitate verso sia pure un solo aderente al Movimento Sociale Italiano. Inoltre, lei è stato liberamente eletto.
Deputati e Senatori dell’MSI siedono nel Parlamento repubblicano, prendono parte alle sue commissioni. Nessuno dei diritti civili riconosciuti agli italiani dalla Costituzione vi viene negato e la parità dei diritti che ogni minoranza deve godere è oggi rispettata. Lei mi chiede se non ritengo che già troppo sangue italiano sia stato versato e da una sole delle parti. Le rispondo che non ho mai accettato il mito soreliano della violenza. Dalla violenza sono stata
vaccinata in gioventù, quando udii le grida di chi veniva selvaggiamente percosso e conobbi persone che poi vennero uccise da scherani fascisti. Per me la violenza, di qualunque colore si ammanti, è cosa abominevole ed è indice di quella mentalità fascista che esaltò, praticò ed insegnò la violenza gli italiani. Se ritengo che la situazione attuale del Paese richieda la collaborazione sincera e senza remore dei partiti politici smussando gli angoli di quanto li divideva, ritengo questo limitatamente ai partiti che accettano apertamente i principi della Costituzione repubblicana”.
Restano questi, a mio avviso, parametri validi di giudizio per la storia e per il presente. Per le vicende nostre interne e per le sofferenze di altri Paesi. In un epoca in cui persino una guerra ingiusta torna a mostrare che in Europa il diritto non ha debellato la violenza per sempre.

25 aprile 2023

[Fonte: http://www.associazionefsnitti.org/]

di Nadan Petrovic, Università degli studi di Roma “La Sapienza”

 

Negli ultimi tempi, la già precaria situazione nei Balcani occidentali si è aggravata sotto molti aspetti, fino ad arrivare a sfiorare nuovi conflitti armati. Lo “status quo” definito dagli Accordi di Dayton del 1995 e di Kumanovo del 1999 – che posero fine rispettivamente alla guerra in Bosnia Erzegovina e al Kosovo – è caratterizzato dal ciclico riproporsi di alcuni problemi che vanno dall’irrisolta “questione kosovara”, ai tentennamenti della Serbia nell’intraprendere una definitiva direzione europea, alla situazione politica estremamente tesa in Montenegro, fino ad arrivare alle frustrazioni delle attese della Macedonia del Nord e dell’Albania connesse al processo di adesione all’Unione Europea.

In tale contesto, la parola è tornata, il 2 ottobre 2022, agli elettori in Bosnia Erzegovina. Questi dovevano scegliere, nel quadro di uno dei più complessi e macchinosi sistemi istituzionali a livello internazionale, sia i tre membri della Presidenza collegiale, sia i loro rappresentanti nel Parlamento centrale, nonché in quello delle due Entità costitutive del Paese, Repubblica Srpska e Federazione della BiH.

Prima di passare all’esito della consultazione elettorale vanno fatte tuttavia due doverose premesse. Ai sensi degli Accordi di Dayton, la Bosnia Erzegovina è suddivisa in due entità, la Federazione della Bosnia Erzegovina (nota anche come Federazione “croato-bosgnacca”), costituita sul 51% del territorio e, Repubblica Serba di Bosnia, formata sul restante 49% del territorio (abitato, a seguito delle divisioni etniche e territoriali belliche, prevalentemente della popolazione serbo-bosniaca). Ai sensi della Costituzione che è parte integrante degli Accordi di Dayton. il Paese è governato da una Presidenza collegiale (composta da tre membri, ognuno dei quali viene eletto dai rispettivi gruppi etnici di appartenenza), da un Parlamento bicamerale e dal Consiglio dei Ministri. Tuttavia, anche ciascuna delle due entità possiede una propria Costituzione nonché dei propri organi legislativi ed esecutivi autonomi (presidente, parlamento – monocamerale nella Repubblica Srpska e bicamerale nella Federazione - e governo). La particolarità dell’organizzazione statale-amministrativa bosniaco erzegovese – formalmente uno stato centrale con una forte e peculiare modalità di decentramento (si noti, tra l’altro, che una delle due unità viene denominata Federazione) – non finisce qui: anche all’loro interno le due entità “decentrate” sono articolate in maniera molto eterogenea. Mentre la struttura della Repubblica Srpska risulta centralizzata, la Federazione è articolata in tre livelli (la Federazione, i cantoni e le municipalità). Tale complessa (e costosa) struttura istituzionale e insieme causa ed effetto di una pluridecennale tensione tra chi vorrebbe rafforzare il livello centrale (prevalentemente i partiti a maggioranza bosgnacca) e chi invece privilegia la fortissima autonomia delle entità (parte serbo-bosniaca, senza nascondere, anche dichiaratamente, la volontà di unire un giorno il territorio della Repubblica Srpska alla Serbia); più ambigua la posizione dei croati bosniaci, favorevoli al rafforzamento centrale ma nei fatti più interessati ad una forte autonomia dei cantoni a maggioranza croata e, idealmente, alla creazione di una terza entità.

Per comprendere meglio il quadro della situazione va sottolineato un ulteriore dato di fatto, riportando le lancette dell’orologio molti anni indietro, nel lontano novembre 1990, ovvero alla data delle prime elezioni “libere” in Bosnia Erzegovina (successive cioè alla caduta del Muro di Berlino). A queste stravinse una coalizione dei partiti d’ispirazione nazionalista composti dal Partito d’azione democratica – SDA (partito etnico dei bosgniacchi), della Comunità democratica croata - HDZ e del Partito Democratico Serbo -SDS. Al fine di prevalere sul fronte contrapposto - rappresentato principalmente dagli ex comunisti confluiti in Partito socialdemocratico (SDP) e dalla cosiddetta Alleanza delle Forze Riformiste (SRSJ za BiH), in rappresentanza delle forze politiche e sociali di orientamento “civico” – i tre partiti etnici, che non ‘competevano’ tra loro in merito a un potenziale elettorato, si proposero in una coalizione formale. Grazie alle mirabolanti promesse, questi presero il potere e installarono un sistema tripartito di governo a tutti i livelli. Purtroppo, come del resto era prevedibile, l’incanto durò pochissimo: la coalizione vincente non riuscì a raggiungere un accordo su nessuna singola questione e nel giro di pochi mesi la Bosnia Erzegovina rimpiombò nel caos politico-istituzionale e, successivamente, nell’aprile 1992, in un sanguinoso conflitto. Ma al danno della guerra seguì la beffa della fase post-bellica. I partiti vincitori delle elezioni nel 1990 - che si scontrarono duramente, non solo politicamente - durante la guerra, continuarono a governare il paese anche dopo gli Accordi di Dayton riproponendo ciclicamente temi nazionalisti e creando ad arte i problemi etnici al fine di risvegliare antiche paure e rivendicazioni di tipo estremistico. L’unico cambiamento politico di rilievo avvenuto in oltre trenta anni di declino, è rappresentato dall’affermarsi stabilmente al potere nella Repubblica Srpska - al posto del SDS, il cui leader Radovan Karadzic fu processato e condannato per i crimini di guerra dal Tribunale speciale per la ex Jugoslavia - di Milorad Dodik e del suo Partito dei socialdemocratici indipendenti (l’SNSD), che hanno tuttavia da tempo abbandonato le posizioni socialdemocratiche a favore di quelle nazionaliste e che sono divenuti, da beniamini delle socialdemocrazie occidentali, i principali stakeholder della Federazione russa nella regione. Al netto di questo cambiamento, i tre partiti (l’SDA, l’HDZ e l’SNSD al posto dell’SDS), nonostante molti anni di politiche fallimentari, hanno continuato a monopolizzare le sorti del Paese, creando un sistema di potere tri(etno)partitico ed emarginando ogni forma di opposizione.

In tale contesto, il risultato elettorale, pur carico di qualche novità sul piano politico aggiunge ulteriori incognite alla di per sé complessa realtà politico-istituzionale.

La prima novità consiste in un moderato successo, specialmente nella Federazione BiH  del blocco dei partiti bosniacchi e civici della c.d. “Coalizione dei otto”. Tale blocco, composto dal Partito socialdemocratico della Bosnia-Erzegovina (SDP), Narod i Pravda (NiP), Il nostro partito (NS), il Partito per la BiH (SBiH), l'Iniziativa della Bosnia-Erzegovina Fuad Kasumović, il Movimento di azione democratica (PDA), la Lista Indipendente della Bosnia ed Erzegovina (NES) e del Partito per la nuova generazione (ZnG), il cui denominatore comune consiste nel fatto di non cercare semplicemente il voto non etnico, è riuscito a far eleggere – per la prima volta dal 1990 – quale rappresentante “eletto tra le file del popolo bosniaco-mussulmano”, un esponente dell’opposizione (e non del  Partito d’azione democratica -SDA). Inoltre, anche tra le file del popolo croato-bosniaco, è stato eletto – in questo caso per la seconda volta – un rappresentante di un piccolo partito dell’opposizione (del Fronte democratico, che non fa parte della Coalizione degli otto) e non quello espresso dalla Comunità democratica croata - HDZ. Per quanto riguarda il terzo membro della Presidenza collegiale, “eletto dalle file del popolo serbo-bosniaco” è stato confermato invece il candidato del SNSD.

La seconda novità – in un certo senso anche più rilevante in quanto i poteri dei membri della Presidenza siano in realtà molto limitati, consiste nel raggiungimento di un accordo per la costituzione del Governo centrale tra il SNSD, HDZ e la “Coalizione degli otto” nonché di Governo della Federazione della BiH tra questi ultimi due (HDZ e “Coalizione degli otto”). In altre parole, senza il Partito di Azione Democratica (SDA), che ha formato la maggioranza dei governi del Paese dalla fine della guerra nel 1995.

Secondo i suoi promotori, l'accordo, annunciato come “storico”, dovrebbe cambiare il clima politico nel Paese. Lo stesso è stato raggiunto peraltro in tempi record per gli standard bosniaco-erzegovesi: il processo di nomina del Consiglio dei ministri della Bosnia-Erzegovina dovrebbe essere completato nei prossimi giorni laddove per la nomina del Governo uscente si dovettero aspettare ben quattordici mesi. .

Li finiscono però le novità (o, a secondo del punto di vista, buone notizie). Sebbene la nuova coalizione si sia detta “programmatica” ovvero tesa ad occuparsi dei problemi della vita dei cittadini (i nuovi partner della coalizione si sono concentrati su ciò su cui possono essere d'accordo e hanno deciso di mettere da parte le loro differenze) alcune divergenze di fondo appaiono davvero incolmabili. Ad esempio, quelle relative alla collocazione internazionale del Paese - con il SNSD che si oppone con forza all’adesione alla NATO, ma nei fatti anche all’UE – nonché in relazione all'organizzazione interna del Paese. Inoltre, non è del tutto chiaro come dovrebbe funzionare effettivamente la nuova maggioranza parlamentare, a causa di una coalizione insolitamente ampia che includerà almeno dieci partiti - le cui opinioni politiche variano dall'estrema destra all'estrema sinistra - ma anche a causa delle minacce del Partito di azione democratica (SDA) di far bloccare tutti i provvedimenti importanti nella camera alta del parlamento federale. Infatti, la stessa SDA, pur rimanendo fuori dell’accordo di Governo ha vinto individualmente il maggior numero di mandati nella Federazione BiH. Ecco che allora, in una specie di giostra orientale, dove le possibili unioni politiche nascono e muoiono nell’arco della stessa giornata, tutto rimane ancora molto incerto.     

Il che, al di là di tutti tecnicismi, riporta al nocciolo della questione: in un quadro di totale paralisi politica - istituzionale (basti citare che il governo della Federazione BiH era in "mandato tecnico" per tutto il periodo tra le due elezioni) ed economico-sociale, né le prospettive mirabolanti non realizzate, né i clamorosi insuccessi in tutti campi ha tuttora privato i partiti di ispirazione nazionalista (SDA, HDZ e SNSD) di un importante consenso popolare. Quale il risultato, ad oltre venticinque anni dagli Accordi di Dayton, il paese risulta diviso in territori etnicamente omogenei, senza efficienti istituzioni comuni e con un’economia prevalentemente assistita mentre registra tassi di emigrazione senza precedenti (secondo le stime della Banca Mondiale, la Bosnia-Erzegovina è diventata oggi il paese che sta perdendo la sua popolazione più velocemente).

Quando si scriverà la storia dei paesi Est europeo a seguito del processo di democratizzazione avviato dalla caduta del Muro di Berlino, Bosnia Erzegovina di certo non sarà ricordata come una “success story”.

 [pubblicato il 17/01/2023]

di Paolo Borioni

2 settembre 2022

Gli anni di Gorbachev possono essere interpretati da diversi punti di vista, ma il mio personale approccio alla ricerca storica e le mie ricerche  riguardanti il socialismo europeo mi portano a proporre quello di una fecondazione, in parte non intenzionale ma certo non casuale, fra culture politiche sparse per l’Europa e capaci di circoli virtuosi. Willy Brandt di sicuro diede inizio ad una semina e ad una contaminazione decisiva. Ciò avvenne prima con la Ostpolitik varata al tempo della sua cancelleria, poi, in seguito alle controverse dimissioni del 1974, con la sua presidenza dell’Internazionale Socialista (1976): rafforzando e rinnovando il socialismo europeo, costruendogli intorno nuove reti e seminando in tutto ciò ovunque concetti capaci di fruttificare.

Ad esempio esiste una gran differenza fra la Ostpolitik di Merkel e quella di Brandt: quella di Merkel ha confidato pressoché esclusivamente sulle virtù (troppo spesso credute autosufficienti) del commercio pacificante e dell’interdipendenza economica. Sempre dubbiosa (come del resto la Francia e l’Italia) rispetto all’allargamento della NATO, la Germania ha così pensato che la propria  capacità commerciale potesse bilanciare le insidie d’una sicurezza NATO che moltissimi osservatori ed esperti sapevano essere troppo unilateralmente perseguita. Si è pensato lungamente che l’interdipendenza commerciale potesse prevenire il frutto velenoso della “sicurezza unilaterale” dell’Occidente, ovvero la sfiducia e poi l’aggressività russa in Ucraina. Invece, l’insufficienza dell’approccio ha mutato l’interdipendenza in sfiducia aperta (da parte russa) e in dipendenza energetica (da parte tedesca e non solo).

Le strade aperte dalla Ostpolitik di Brandt, ma soprattutto l’opera internazionalista di Brandt e dei socialisti in genere, invece costruì iniziative, concetti e reti orientate a produrre un’interdipendenza non solo economicista, e una moltiplicazione della fiducia in molti campi. Ciò anche per risolvere il dilemma tedesco: continuare (certo) a crescere come potenza economica, ma affermandosi anche come attore politico di primo piano, e creando al contempo tutte le condizioni per dissociare permanentemente questo ruolo dall’identità di potenza militare. Per fare ciò occorreva coerenza etico-ideologica e senso della storia (che non mancava ovviamente a Brandt, o a Kreisky, per le esperienze vissute fra le due guerre), benché tutto ciò non fosse disgiunto dal realismo politico.

La comparazione fra l’oggi e l’epoca di Gorbachev ci dice che la natura delle culture politiche nazionali (o sovranazionali) poste in circolazione può produrre interazioni virtuose o viziose nelle relazioni internazionali. Può per esempio completare l’effetto insufficiente delle relazioni commerciali, o al contrario contribuire a far puntare ingannevolmente sulla sua sufficienza.

L’affermarsi politico di Gorbachev e poi della sua proposta di distensione si comprende insomma meglio ricordando che non solo Brandt, ma in genere i leader dell’internazionalismo socialista si aprirono a culture politiche di un socialismo diverso (da quello “spurio” del New International Economic Order a quello sudamericano) sulla base (fra l’altro) di un’idea ampliata e progressiva di cosa causasse l’instabilità, e dunque di cosa favorisse le tensioni internazionali.

L’approccio “cold warrior” (semplificando) faceva coincidere grandemente l’instabilità con la manovra occulta dell’avversario strategico, per esempio in Sudamerica. Quello dell’Internazionale Socialista, sempre più attiva ed accogliente nel sud del mondo, era che la radice almeno principale dell’instabilità fosse socio-economica. Questo giudizio di base si afferma particolarmente durante la presidenza Brandt dell’Internazionale Socialista che si protrae per tutti gli anni 1980, ma era già componente essenziale della visione di paesi in cui il socialismo democratico era egemonico: dai neutrali come Svezia e Austria, ai membri Nato come Norvegia, Danimarca e Paesi Bassi (presto anche i paesi iberici di Gonzales e Soares).

Ciò era connesso ad altri due elementi presenti e fortemente interattivi nell’Internazionale Socialista: c’era l’esigenza di uscire dai classici confini europei della socialdemocrazia ovvero, come accennato sopra, sia di farsi carico dei problemi di sviluppo del Sud del mondo, sia di aprirsi a socialismi diversi e nuovi.

Ma c’era anche un altro elemento importante: tramutare la storia socialdemocratica recente dei paesi occidentali in proiezione internazionalista. La generazione socialista al potere dagli anni 1960 in poi era particolarmente adatta a mettere a frutto la realtà storica per cui, in misura diversa,  i paesi della socialdemocrazia (Svezia, Austria, Germania, tutti) avevano acquisito stabilità solo con la riforma profonda delle rispettive società ed economie capitalistiche.

Era del resto per questa via che si rifiutava anche la dottrina “realista” della stabilità come prodotto esclusivo dell’equilibrio di potenza.  Per sostenere invece la riduzione dell’instabilità mediante la lotta alle disuguaglianze globali, un nuovo rapporto Nord-Sud e molto altro: questo fu la Commissione Brandt, almeno inizialmente promossa dalle alte sfere della Banca Mondiale.

Ma questa complessa maturazione dell’ internazionalismo socialista (non certo sviluppato fino a pochi lustri prima) conduceva conseguentemente, al momento inevitabile di affrontare anche il negoziato sulla sicurezza, a generare un altro concetto: non l’equilibrio del terrore, ma la sicurezza condivisa. Eccoci ad una ulteriore idea-base ormai assente da decenni, ed all’istituzione che la elaborò in modo definitivo: la commissione Palme. È peraltro proprio mediante questa commissione che la semina di concetti ed idee diviene sistematica e il rapporto fra le varie facce dell’internazionalismo socialista e Gorbachev si fa più stringente. Olof Palme comincia a presiedere la commissione quando (come quasi mai capita) il suo partito socialdemocratico non è al governo. Eppure i frutti non tardano a venire anche perché le reti di esperti e statisti (consolidati o in divenire) formatesi nei lustri precedenti vi trovano una congiunzione. Nella commissione a generare il concetto di “sicurezza condivisa” sono numerose e importanti personalità capaci di riportarne nei propri paesi l’impulso. Ma anche di mettere a frutto l’appartenenza a reti di leader, futuri governanti, influenti esperti e consiglieri. Fra di essi il sovietico Georgi Arbatov, direttore di lungo corso dell’ISKAN, centro per lo studio di USA e Canada. Ma anche (fra i molti) Harlem Bruntland e Joop Den Uyl, la norvegese e l’olandese presto a capo di due paesi Nato. Cui si potrebbe aggiungere Bahr e Brandt in Germania, Holst in Norvegia, Gareth Evans in Australia; oltre a Palme, Theorin, Dahlgren in Svezia, David Owen nel UK; Cyrus Vance negli USA; Obasanjo and Ramphal nel sud del mondo. Arbatov, che considerò la Commisione Palme degna di una definizione apposita (INGO: ovvero organizzazione non governativa internazionale), afferma nelle sue memorie che il rapporto della Commissione fu decisivo affinché Gorbachev diffondesse l’idea di sicurezza condivisa nel proprio paese. E puntualizza che le reti di decisori strettamente connesse alle elaborazioni della commissione andarono anche oltre le partecipazioni esplicite, estendendosi a Rajiv Ghandi, Bruno Kreisky, Pierre Trudeau, Bettino Craxi e Ingvar Carlsson, che avrebbe sostituito Palme come primo ministro di Svezia dopo l’assassinio del 1986.

Un altro sovietico come Andrei Kokoshin, anche lui alla guida dell’ISKAN e forse il più influente esperto sovietico di difesa degli anni 1980 (tanto da assurgere a ministro della difesa nel 1992), afferma la grande importanza della commissione Palme nello sviluppo della proposta Gorbachev. Sarà insomma possibile all’URSS, guidata dallo statista russo appena scomparso, promuovere la “sicurezza condivisa” e la “difesa non offensiva” (altro concetto elaborato negli ambienti della Commissione Palme) nella comunità internazionale degli anni 1980. Per rendere possibile questo fu decisivo il coraggio di Gorbachev e le sue grandi visioni, ma  anche il fatto che i “falchi” del PCUS non poterono accusarlo di astrazione dalla comunità internazionale e dal mondo reale. Ciò significa ricordarlo con tutto l’humus di idee che negli anni 1980 gli permise di non reagire aggressivamente alla superiorità USA e alla pericolosa sfida di Reagan (con cui un Brandt ancora decisivo nella SPD e nella internazionale socialista entrò in aperto contrasto) favorendo invece una straordinaria stagione di fiducia.

Quella di Gorbachev fu insomma un’epoca in cui si cercò di generare una contaminazione dinamica. Si tentò di abbandonare dottrine troppo legate alle fissità: di superare il puro equilibrio di potenza realista, di distanziarsi dalle eterne e immutabili leggi geopolitiche, di dismettere la dottrina delle democrazie per definizione mai aggressive e dunque (paradossalmente ed insostenibilmente) autorizzate all’espansione. Si cercò al contrario di puntare, mediante reti e istituzioni internazionali, sulla diffusione di contenuti cooperativi nei “depositi” ideali nazionali. Il concetto di “deposito’, peraltro, si adatta anche a definire le caratteristiche e gli atteggiamenti dei diversi paesi senza autorizzare fissità o determinismi. “Deposito” è qualcosa di composito e di variabile. Esso reca elementi del passato, anche geopolitici, ma non è una fissità, nemmeno rispetto a quali elementi dei depositi nazionali vengono privilegiati in un certo contesto storico, o a come essi vengono combinati per ottenere sintesi nuove.

La SPD di Brandt aveva mutato il proprio deposito ideale nazionale costruendo a sua volta nuovi percorsi e finalità per l’affermazione dell’interesse tedesco. Ed aveva, con altre socialdemocrazie, reso globale l’impatto dell’Internazionale Socialista. La “sicurezza condivisa” e la “difesa non offensiva”, cui aveva grandemente contribuito il socialismo internazionale, avevano poi integrato il “deposito” nazionale sovietico. Ciò rese più facile e più sostenibile la leadership di Gorbachev, che  cercava modi non aggressivi di reagire alla sfida strategica ed ideologica di Reagan. Anche perché sapeva che l’URSS non l’avrebbe retta.

La situazione odierna, viceversa, si spiega con il ricorso, già da anni, ai contenuti meno cooperativi dei depositi nazionali ed ideologici. Così, invece che culture e reti politiche capaci di circoli virtuosi, si sono affermate, ben prima del 24 febbraio, troppe fissità e vieti conformismi.

 

 

 

 

 

Una pagina di Franco Venturi suggerita da Dora Marucco.

Brano tratto da “F. Venturi - La democrazia in Italia. Note di uno storico” (testo pubblicato in traduzione russa 11 settembre 1984, ora in F. Venturi, Scritti Sparsi a cura di G. Franzinetti ed. Tortarolo, Torino Nino Aragno 2022, pp 429 - 430


In mezzo alle macerie del fascismo due pilastri restavano in piedi, malgrado la forte scossa impressa anche dalla resistenza, e cioè lo stato e la chiesa. Lo stato era addirittura spezzato in due, tra nord e sud, e una guerra civile ne era risultata. Eppure lo stato, la sua burocrazia, la sua lentezza, la sua inefficienza tornò immediatamente a galla, appena finita la guerra. Da monarchico divenne repubblicano, da strumento di dittatura si fece costituzionale. Ma per mille aspetti non mutò. L'epurazione degli elementi compromessi col fascismo fu del tutto insufficiente (anche grazie alle disposizioni volute da Togliatti quando era ministro della giustizia). Mancò qualsiasi tentativo di creare uno stato diverso e nuovo, di fondare scuole per i funzionari, fissare criteri di selezione e di controllo che non fossero quelli polverosi e corporativi del passato. Tutto lo sforzo della classe dirigente si concentrò sulla costituzione, questo palladio della libertà riconquistata. Costituzione effettivamente democratica, capace di garantire i diritti dei cittadini e dei gruppi, profondamente liberale, ma di cui ora, dopo quasi quarant'anni, scorgiamo chiaramente i limiti e i difetti. Il culto del diritto e delle sue forme, che la ispirò, nasceva da una naturale e sacrosanta reazione contro l'arbitrio fascista. Impedì tuttavia al legislatore e in genere alla classe politica italiana di guardare ad alcuni problemi sostanziali, i poteri del governo, la legge elettorale, la regolamentazione del diritto di sciopero, il carattere e i limiti dei sindacati - questioni tutte che furono rimandate al futuro della costituente e che attendono ancor oggi una risposta. Nell'atmosfera di entusiasmo della rivoluzione democratica parve si dovesse scegliere il più bel modello di costituzione, il più giusto ed elegante, dimenticando quanto difficile sia la democrazia nel mondo moderno, non tenendo presente abbastanza gli esempi della repubblica di Weimar, della terza repubblica francese, della repubblica spagnola. L'Italia si trovò presto ad essere, con le evidenti eccezioni di Israele e della Francia (e anche questo parve un momento piegare sotto il gaullismo) l'unico paese democratico del Mediterraneo. L'allargarsi ad altre nazioni della democrazia, negli ultimi decenni, è stato uno degli elementi essenziali che ha permesso la continuità democratica della vita politica italiana e la sua diretta ed attiva partecipazione alla comunità europea e, attraverso i suoi lavoratori, alla ripresa economica dell'Europa.

di Paolo Borioni

 

Prosegue da giorni la riflessione sull’ennesima strage di ragazzi perpetrata negli USA. Anche la differenza fra modelli sociali è stata considerata, più o meno fecondamente, come spiegazione del fenomeno. Io stesso, con pochi minuti di anticipo, vi sono stato coinvolto, e credo che, autocriticamente, il risultato del dibattito non sia stato del tutto soddisfacente.

 

(https://www.raiplaysound.it/audio/2022/05/Tutta-la-citta-ne-parla-del-26052022-45aa2230-3b34-4ab9-b418-f39c3effdb9e.html?fbclid=IwAR1PYhjzzzjq69nJWTWX1r4lcyyChuZ-rlR_DUbFWYFfOKMUhSF1kUT-YBs&fs=e&s=cl)

 

Per questo è bene chiarire che, per quanto il ricorso a fattori enormi come “i modelli sociali” possa essere interessante, è bene partire dai dati più concreti, come la forza di cui gode la promozione degli armamenti negli USA. Inoltre, evocare la “epopea del west”, oppure il maggiore individualismo nordamericano, rischia di cristallizzare tutto, a cominciare dalla storia, in qualcosa di sempre uguale, e non dinamico come sono le società e la storia. Occorrerà ricordare che ad esempio noi siamo stati una società molto più violenta di oggi (mentre attualmente abbiamo tassi di omicidi, anche di femminicidi, bassissimi), e che un paese come la Svezia lo è oggi molto più di qualche decennio fa, oltre ad essere molto più disuguale. Ci sono pochi dubbi che una diversa regolamentazione possa contenere enormemente l’eredità negativa del secondo emendamento, quello che in USA secondo alcuni deve continuare a consentire la libera circolazione delle armi. Ma, fra i valori costitutivi degli Usa, lo dico a rischio di sembrare paradossale, forse conta maggiormente il primo emendamento del secondo, ovvero quello sulla libertà di espressione  (“Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances.”) rispetto a quello sulla libertà di portare armi (“A well regulated Militia, being necessary to the security of a free State, the right of the people to keep and bear Arms, shall not be infringed.”). A ben vedere il secondo, per quanto discutibile nel senso che può comportare contraddizioni con il monopolio della violenza degli Stati moderni, però non convalida necessariamente l’idea di una società violenta poiché individualista e refrattaria alla regolamentazione dello Stato. In effetti, nella “Kongeloven”, ovvero la legge seicentesca che regolava e sanciva la società dell’’assolutismo monarchico danese, spiccava il principio per cui “Solo il re ha il potere delle armi”. Ma è bene chiarire che ciò significava soprattutto espropriare i nobili del potere politico-militare.

Nel secondo emendamento USA, a paragone di ciò, i valori che si scorgono sono piuttosto di tipo “democratico repubblicano”, cioè di milizia per lo Stato. Ma questo non condurrebbe necessariamente a legislazioni di tipo “individualista”, né sugli armamenti né su molto altro. È bene chiarire che, per quanto il modello sociale USA in effetti promuova valori più individualistici (in cui cioè le libertà “dal governo” sono più forti dei diritti sanciti “grazie al governo”, per esempio sociali) rispetto a quelli europei e specie socialdemocratici, ciò non basta a chiarire tutto. Occorre un livello di specificazione maggiore, che renda i modelli sociali una possibile spiegazione anziché foreste pietrificate buone per ogni dibattito in ogni millennio. In base alla norma espressa nel secondo emendamento, in effetti, lo Stato USA potrebbe mantenere la propria coerenza costituzionale legiferando nel senso che la diffusione di armi va fortemente ristretta (come da noi) fintanto che non si presentino seri pericoli per la repubblica, tali cioè da armare i cittadini. Poiché una delle fonti della potenza USA è la pressoché assoluta inattaccabilità del proprio territorio da minacce straniere, sarebbe ben possibile legiferare scindendo la circostanza storica che ha partorito quell’emendamento dalle circostanze odierne. In queste ultime, invece, a contare è soprattutto il modo in cui potentissime lobbies, come quella delle armi, sono legittimate a esprimersi, usando a proprio vantaggio quanto scritto sia nei primo sia nel secondo emendamento. Fra gli essenziali fattori a consentirlo c’è la sentenza della Corte suprema Buckley vs Valeo del 1976, che in sostanza equipara la corresponsione di grandi cifre nelle campagne elettorali ad ogni altro modo di esprimere sacrosantamente le proprie opinioni. Ovvero, come alludevo sopra, proprio al primo emendamento. Nessuna sentenza in seguito ha efficacemente mutato tali dati, per cui nei due grandi partiti USA sono numerosi i parlamentari fortemente condizionati dall’associazione nazionale dei produttori di armi (NRA). Biden, e prima Obama, hanno tentato di mutare le cose, ma non è, ancora, servito. Questa “libertà di espressione” legata alla capacità di influenzare la politica, fino a forme che potremmo definire “corruzione preventiva” (perché il voto parlamentare è già “comprato” prima dell’elezione) promuove la diffusione non solo di armi direttamente derivate dal fucile militare M 16, ma anche una loro “customerizzazione”. Queste versioni di fucile automatico sono più leggere, facilmente portabili, e anche colorate, se lo si vuole, in modo gradevole, rosa o blu. Ad ogni modo, se si vuole tornare alla questione dei “modelli sociali”, occorre intersecarli con i modelli di finanziamento della politica. Indubbiamente la tipologia e forza del rapporto sindacato-politica e lavoro organizzato-Socialdemocrazia, permette di produrre un finanziamento dei partiti che bilancia e limita il potere dei grandi interessi economici. Per esempio, le socialdemocrazie nordiche e il Labour anglosassone (anche in Nuova Zelanda ed Australia, dove ha appena vinto) garantiscono che, almeno, non tutte le forze principali del sistema politico siano egualmente invase da determinati interessi capitalistici. Inoltre, la tendenza “interclassista” del cristianesimo democratico tende a differenziare le proprie fonti di finanziamento, cosicché Socialdemocrazia e centro-destra europeo spesso sono anche convergenti nel promuovere la centralità del finanziamento pubblico. Spicca in questo, lo ripeto spesso, il migliore sistema in assoluto, quello tedesco, che finanzia insieme le fondazioni culturali dei partiti, i partiti in base ai voti presi e (importantissimo) premia con quote di finanziamento pubblico i partiti in base ai piccoli finanziamenti provenienti da iscritti e sostenitori. Ora, esiste un forte rapporto fra (da un lato) modello sociale (in cui lo Stato promuove diritti sociali e si legittima anche grazie ad essi) di cui la classe lavoratrice organizzata ė una parte essenziale, e (dall’altro) un finanziamento della politica concepito in modo più “europeo” e specie “tedesco”. Tutto questo non potrebbe mai condurre all’equazione della sentenza USA del 1976: soldi=uguale libertà di espressione. Insomma, la presenza storica di culture politiche tendenti ad un diverso modello socio-economico promuove anche un diverso modo di finanziare la politica. Diremmo, nel caso europeo, un sistema più equanime rispetto ai vari impulsi, per quanto in Europa abbondino i segnali di regressione (con culture politiche scarsamente rappresentative e democrazia sempre meno inclusiva, a partire dal nostro paese). Azzarderei che il sistema tedesco raggiunge, nonostante tutto, la migliore sistemazione perché rispecchia una convergenza fra socialdemocrazie e centro-destra ordo-liberale che forse è interessante descrivere sommariamente. Da un lato la socialdemocrazia tende (meglio nel passato come si sa) a promuovere un’economia che compete senza sfruttamento del lavoro, e obbliga così all’innovazione. Dall’altra parte l’Ordoliberalismo, pur lontano dalle aspirazioni socialdemocratiche di eliminazione dello sfruttamento, mira a costruire le regole fondamentali della perfetta concorrenza una volta per tutte (una “Costituzione economica”) con pochissimi adattamenti “politici”necessari. Ebbene, questo assetto tecnocratico (banca centrale indipendente, inflazione, welfare e salari sotto il potenziale, stretta regolamentazione della concorrenza mediante autorità poco o nulla influenzate da dinamiche “politico-elettorali”) significa anche che poi non servono (e non sono anzi auspicabili), rapporti troppo  condizionanti fra politica e interesse immediato d’impresa. Del tipo del finanziamento massiccio equiparato ad una libertà fondamentale. Ciò, sia chiaro, ha effetti positivi e negativi. Spesso la politica USA, per produrre domanda e crescita, (favorendo così sia le imprese sia le famiglie che senza lavoro non possono contare su quote di welfare paragonabili ai modelli europei) è più in grado di intervenire, ed in effetti agisce (pur con molte distorsioni) da motore economico del mondo. Invece quella tedesca, e quella Ue molto “ordoliberalizzata”, è più rigida nella reazione alle crisi, con conseguenze negative che tutti conosciamo, e che comprimono anche lo spazio e della socialdemocrazia. Rispetto agli aspetti distorsivi e correttivi del finanziamento alla politica, invece, senza dubbio il modello ordoliberale, anche perché bilanciato dal sempre forte impatto storico  socialdemocratico, ė nettamente da preferire. Non sarebbe male che anche il sistema di finanziamento italiano si avvicinasse a quello tedesco, pur accontentandosi di risorse assolute minori.

di Angela De Benedictis

Istituzioni di governo cittadine in difesa della patria, Bologna, minacciata dal suo sovrano papa Alessandro VI e da suo figlio Cesare Borgia nel 1502. L’istituzione populus cittadino che richiede un parere sulla liceità della resistenza di Bologna al suo sovrano, il papa guerriero Giulio II[1] nel 1506. Un discorso pronunciato in pubblico nel 1502, in volgare; un parere legale (consilium) scritto nel 1506, in latino. Queste le due fonti primarie già da tempo note nelle rispettive edizioni a stampa, di cui qui si forniscono le riproduzioni degli originali manoscritti. Fino ad ora non erano disponibili alla visione diretta, che – soprattutto nel caso del consilium del 1506 – possono essere di particolare interesse per gli studiosi della Società per gli Studi di Storia delle Istituzioni esperti del rapporto tra manoscritti medievali/tardo medievali e stampa (penso soprattutto a Mario Ascheri e Diego Quaglioni, soprattutto dopo il diciassettesimo incontro de "Le Carte e La Storia” dello scorso 4 novembre 2022 su “Tra diritto e istituzioni. Un percorso di ricerca”, https://www.storiadelleistituzioni.it/index.php/le-carte-e-la-storia/le-giornate-de-le-carte-e-la-storia/367-mario-ascheri-tra-diritto-e-istituzioni-un-percorso-di-ricerca).

Autori dell’uno e dell’altro sono due docenti nello Studio bolognese: il canonista e teologo Floriano Dolfi (1445 ca. - 1506[2]) e il doctor utriusque iuris Giovanni Crotto da Monferrato (1475 ca. - 1517[3]).

Da tempo mi sono occupata del discorso di Dolfi e del consilium di Crotto[4]: del discorso pubblico di Dolfi attraverso la edizione novecentesca Orazione in difesa della patria[5], data alle stampe come composizione per le nozze Mirafiori-Boasso; del consilium di Crotto attraverso la edizione del 1576[6]. Vale la pena sottolineare che l’orazione pubblica di Dolfi del 16 ottobre 1502 era stata preceduta da una intensa attività di ambasciatori bolognesi inviati a Roma dal governo cittadino per impedire che Alessandro VI e Cesare Borgia muovessero guerra a Bologna[7]. È d’altra parte noto che Niccolò Machiavelli, seguendo le vicende bolognesi nel corso della sua seconda legazione presso la corte papale in viaggio da Roma a Bologna, riferì ripetutamente delle trattative tra il governo bolognese e l’inviato pontificio Antonio del Monte, Uditore generale della Camera Apostolica, nel settembre-ottobre del 1506[8].

Continuando periodicamente a cercare di individuare l’originale della orazione di Dolfi, mi è fortunatamente successo di trovarlo nella raccolta della Autografoteca Campori della Biblioteca Estense Universitaria di Modena[9]. E, consultando tutta la appendice della Autografoteca, anche di trovare l’originale manoscritto del consilium di Crotto[10].

Mostrare qui entrambi serve anche, da una parte, a dare rilievo alla iniziativa in corso di digitalizzazione della Autografoteca, con un progetto congiunto tra Biblioteca Universitaria Estense e Università di Modena – Reggio Emilia[11].  Dall’altra, a ricordare che l’originale dell’interdetto di Giulio II cui il consilium di Crotto rispondeva era già stato scoperto e mostrato da un archivista, da Mario Fanti[12] (dal 1961 al 2013 Sovrintendente onorario dell’Archivio Generale Arcivescovile di Bologna), nonché per anni bibliotecario della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna e direttore del Museo e Archivio Storico della Fabbriceria di S. Petronio.

Infine, va detto che anche l’orazione di Dolfi del 1502 costituiva una risposta alla prassi di governo del papato nello Stato della Chiesa costituito dall’uso dell’una e dall’altra spada: cioè l’uso dell’interdetto contro le città per costringere le rispettive popolazioni all’obbedienza, con la motivazione della guerra giusta[13].

Gli autografi Orazione fatta da Floriano Dolfi per Alessandro VI del 1502 e il Consilium Domini Ioannis Croti de Monferrato in Causa Reipublicae Bononiensis Adversus Summum pontificem editum del 1506 testimoniano diverse modalità di risposte immediate alla istituzione papato da parte di istituzioni di governo cittadine, secondo un’altra verità (rispetto a quella pontificia) di teoria e pratica della guerra giusta.

 

Dolfi, Orazione in difesa della patria (pdf)  Crottus (pdf) 

 

 

[1] M. Rospocher, Il papa guerriero. Giulio II nello spazio pubblico europeo, Bologna, il Mulino, 2015, e ora la sintesi di Idem, Giulio II a Bologna: arte, politica e religione, nel catalogo della mostra attualmente in corso (8 ottobre 2022 – 5 febbraio 2023) presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna, Giulio II e Raffaello. Una nuova stagione del Rinascimento a Bologna, a cura di D. Benati, M.L. Pacelli, E. Rossoni, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2021,

[2] Su Dolfi, G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, III, Bologna, nella Stamperia di San Tommaso d’Aquino, pp. 256-258; P. Stoppelli, Dizionario biografico degli italiani, 40, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991, pp. 449-451. Informazioni sulla biografia si possono trovare anche in Floriano Dolfi, Lettere ai Gonzaga, edizione a cura di M. Minutelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002.

[3] Su Crotto e sul consilium, E. Dezza, Dizionario biografico dei giuristi italiani, (sec. XII-XX), a cura di E. Cortese, I. Birocchi, A. Mattone, M.N. Miletti, Bologna 2013, pp. 615-616.

[4] Riportandone estesamente i contenuti soprattutto a partire da A. De Benedictis, Repubblica per contratto. Una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna 1995, pp. 162-164 (Dolfi) e ibidem, pp. 170-187 (Crotto). Per il consilium di Crotto anche in A. De Benedictis, Una guerra d’Italia, una resistenza di popolo. Bologna 1506, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 115-122 (e un sintetico accenno all’orazione di Dolfi, pp. 113-114). Recentemente, di nuovo su entrambi, A. De Benedictis, Popular Government, Government of the Ottimati, and the Language of Politics: Concord and Discord (1377-1559), in A Companion to Medieval and Renaissance Bologna, ed. by Sarah Rubin Blanshei, Leiden-Boston, Brill, 2018, pp. 297-298 e 299.

[5] Floriano Dolfi, Orazione in difesa della patria (1502), a cura di V. Giusti, Bologna, Zanichelli, 1900.

[6] Ioannes Crottus, Consilia sive responsa, Liber secundus, Venetiis, ex Officina Damiani Zenari, 1576, Consilium 184, pp. 66r-73r.

[7] Delle diverse istruzioni agli ambasciatori, contenute nel fondo dell’Archivio di Stato di Bologna, Comune, Governo, Consigli ed ufficiali, Magistrature ad ambascerie, b. 3, ho dato conto già in A. De Benedictis, Repubblica per contratto, cit., pp. 156-160.

[8] Riferimenti specifici in A. De Benedictis, Una guerra d’Italia, una resistenza di popolo, cit., soprattutto pp. 58-67.

[9] Autografoteca Campori, Dolfi Floriano, con il titolo Dicembre 1502. Orazione fatta da Floriano Dolfi per Alessandro VI ​(Proprietà Comune di Modena, in deposito permanente presso la Biblioteca Estense Universitaria di Modena). Sulla raccolta Campori, cfr. Collezionare autografi. La raccolta di Giuseppe Campori, a cura di M. Al Kalak e E. Fumagalli, Firenze, Olschki, 2022. Il ritrovamento è stato possibile in base a informazioni fornite nel 2002 da Marzia Minutelli nella Nota biobibliografica a Floriano Dolfi, Lettere ai Gonzaga, edizione a cura di M. Minutelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, pp. LXVI-LXVII e LXXII. Minutelli riferiva del codice da lei fatto restaurare in vista di una edizione critica. Tale edizione è poi stata pubblicata come Floriano Dolfi Orazione contro papa Alessandro VI, edizione critica e commento a cura di M. Minutelli, Manziana (RM), Vecchiarelli, 2019. Poiché in https://opac.sbn.it/ il libro del 2019 non è catalogato (a tutt’oggi, 23 gennaio 2023), ne ho acquistato una copia direttamente dall’editore. In Dolfi, Orazione contro papa Alessandro VI, cit., p. 20-21, Minutelli ripete l’occasione del ritrovamento dell’originale, e nella Descrizione del testimone, ibidem, pp. 24-26, afferma come l’edizione di Vincenzo Giusti del 1900 avesse sostanzialmente rispettato «lo sviluppo logico del discorso dolfiano» (p. 25).

[10] Raccolta Campori, Camp. App. 309=Gamma.T.1.3, Consilium Domini Ioannis Croti de Monferrato in Causa Reipublicae Bononiensis Adversus Summum pontificem editum VI ​(Proprietà Comune di Modena, in deposito permanente presso la Biblioteca Estense Universitaria di Modena). Nella Appendice prima al Catalogo dei codici e manoscritti posseduti dal marchese Giuseppe Campori compilata da Raimondo Vandini. Dal secolo XIII al secolo XIX inclusive, Modena, Tipografia di Paolo Toschi e C., 1886, p. 117, n. 309, viene specificato che «il manoscritto cod. cart. in fol. di carte 35, sec. XVI, … porta in fine l’autentica di mano del Croti col suo suggello».

[11] https://iris.unimore.it/handle/11380/1282677

[12] M. Fanti, La bolla “della maledizione” di Giulio II: il ritrovamento dell’originale, in Città in guerra: esperienze e riflessioni nel primo ‘500. Bologna nelle “guerre d’Italia”, Atti del Convegno internazionale di studio, Bologna 10-11 novembre 2006, a cura di G. M. Anselmi – A. De Benedictis, Bologna, Minerva Edizioni, 2008, pp. 269-274. Una riproduzione dell’originale si può vedere nella scheda del volume in https://opac.sbn.it/

[13] A. De Benedictis, Una guerra d’Italia, una resistenza di popolo, cit., p. 101-114.

 

Di Giovanni Belardelli

(Il Foglio, 17 settembre 2022)

subito dopo la morte di Elisabetta II più d'uno ha richiamato il celebre volume di Ernst Kantorowicz i due corpi del Re (Einaudi). In estrema sintesi, il libro analizza l'idea, che si afferma a partire dalla teologia politica medievale, secondo la quale il sovrano possiede, oltre a un corpo naturale destinato ad ammalarsi e a morire, anche un corpo politico che gli sopravvive poiché rappresenta la perennità del potere sovrano. La formula che tutti conosciamo “il re è morto, viva il re “evidenzia questa indipendenza della sovranità dalla vita di un certo particolare sovrano. Bene, il rinvio al libro di Kantorowicz, Tanto più alla morte di colei che l'opinione globale sente essere l'ultima vera regina, è molto suggestivo. Ma anche del tutto sbagliato.

Quel discorso sui “due corpi del re” valeva per l'antico regime, quando l'autorità sovrana coincideva con l'esistenza stessa della nazione: Luigi XV, re di Francia , affermò per esempio nel 1766: “il mio popolo esiste solo attraverso la sua Unione con me; i diritti e gli interessi della nazione […] risiedono unicamente nelle mie mani”. È necessario dunque, possiamo aggiungere, che la regalità sia immortale perché lo stesso popolo francese, che esiste solo in Unione con il re, possa sopravvivere al fatto contingente della morte di quest'ultimo.

Non molti anni dopo, però, doveva cambiare tutto. La testa è di Luigi XVI cadeva sotto la lama della ghigliottina il 21 gennaio 1793, ma il corpo immortale del re si era già dissolto da qualche tempo. Con la Rivoluzione francese, infatti, l'unione tra monarchia e popolo si era spezzata e la sovranità si era trasferita dal primo al secondo: il popolo diventava il vero sovrano. Per la verità l’art.3 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino sosteneva che “Ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione”, non dunque nel popolo; questo avveniva per l'intenzione di evitare i rischi di una democrazia radicale e aprire la strada a un sistema rappresentativo non ancora a suffragio universale.  ma la piena affermazione della sovranità popolare era un esito inarrestabile (“La sovranità risiede nel popolo”) proclamava la nuova Dichiarazione del 1793) e nazione e popolo sarebbero diventati sinonimi. Da allora, nelle democrazie, a possedere un corpo incorruttibile, che dunque non muore (anche se forse si ammala, come mostrano tante vicende contemporanee: ma questo è un altro discorso), a non morire  – dicevo – e il popolo come entità collettiva e se vogliamo mistica, poiché non coincide con la semplice somma dei cittadini che lo compongono. Il re costituzionale ormai, anche quando sono circondati da un'amministrazione  e un affetto globali come Elisabetta II, hanno un solo corpo, Che subisce gli oltraggi del tempo e infine muore come quello di tutti noi.

Ma forse, fatta questa precisazione, c'è ancora qualcosa che resta da dire. riandiamo un momento alla fine della peculiare mortalità del sovrano – del suo secondo corpo – che si verifica con la Rivoluzione francese. la nazione, che ora è diventata sovrana, si dota in molti paesi di una rappresentazione femminile che rimpiazza quella del corpo del re. Si tratta di un'allegoria di donna che diventa celebre soprattutto in Francia. E in Francia ha avuto anche, da un certo punto in poi, un nome proprio, Marianne. Nel nuovo clima ottocentesco che vede al centro della vita associata alla nazione, quasi tutti gli Stati europei – sia quelli esistenti sia quelli che aspirano, come l'Italia, esistere come paesi indipendenti e sovrani- si rappresentano attraverso allegorie femminili di questo tipo; si moltiplicano perciò le immagini di donna che raffigurano Germania, Italia, Francia, Svizzera e così via (compresi gli Stati Uniti). la nazione assume le sembianze femminili per tante ragioni, a cominciare dal fatto che una tale immagine rinvia alle capacità generatrici della donna, dunque alla fertilità e per analogia alla prosperità di tutta la collettività nazionale. La donna-nazione  è un'immagine materna e protettiva (si parla della madre-patria), personifica la continuità di un paese al di là del cambiamento dei regimi politici, delle guerre e delle sconfitte, dei passaggi da una monarchia alla repubblica (o viceversa): Rappresenta dunque la perpetuità dell'esistenza di una nazione, il suo “corpo” immortale.

Cosa c'entra con tutto questo la regina inglese appena scomparsa? C'entra, perché non è da escludere che una sovrana che ha regnato per un tempo incredibilmente lungo, riscuotendo un'eccezionale successo in termini di simpatia e rappresentando per i suoi sudditi una figura materna e protettiva, simbolo dell'identità nazionale, sia diventata in qualche modo, decennio dopo decennio, l'allegoria femminile del suo paese. Avendolo accompagnato con equilibrio lungo una storia spesso complicata ha finito per essere una specie – viene da dire – di Marianne britannica. In questo senso, è vero che nessun re (e nessuna regina) hanno più da tempo il “secondo corpo”dei sovrani di antico regime. Ma nell'immaginario dei suoi sudditi, e un po’ anche nel nostro, la sua immagine fa tutt'uno con quella del suo paese.

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