*In L’arte della ricerca. Fonti, libri, biblioteche. Studi offerti ad Alberto Petrucciani, Milano, Feltrinelli, 2021.
- Mio padre, lettore che sottolineava i libri
Mio padre, Giuseppe Melis Bassu (nato nel 1921, morto nel 2010), era, a quanto dicono, un buon avvocato, civilista apprezzato. Lavorava in studio moltissimo, anche da anziano, con orari senza sosta per noi strabilianti. Tuttavia si occupò nella sua vita di molti altri argomenti che non fossero le sue cause e il diritto civile e ciò anzi ne fece, a detta di molti che lo conobbero, un avvocato un po’ speciale: quello che gli avvocati da caffè (ce ne sono tanti in ogni provincia) definivano, un po’ sfottendolo un po’ intimiditi, «un intellettuale». Ventenne, iscritto al Guf della sua città, ne aveva diretto il giornale, «Intervento», in stretta intesa con il quasi coetaneo Antonio Pigliaru: che nel dopoguerra sarebbe stato professore in cattedra di dottrina dello Stato ma soprattutto uno degli studiosi più acuti e innovatori espressi dalla Sardegna del secondo Novecento. Dimessi d’autorità i due ragazzi dal giornale per via delle loro posizioni troppo radicali (erano anti-gerarchi, un po’ come capitò a molti dei ragazzi della stampa gufina), fu richiamato alle armi e quando tornò si tuffò nella professione, ma collaborando sempre ai giornali, dove scrisse inizialmente cronache di critica musicale, poi editoriali di politica, di costume e specialmente (molto) di giustizia: sino a diventare, nella stagione tragica del banditismo sardo e dei sequestri di persona, uno dei più ascoltati esperti sul tema della criminalità delle zone interne. Fu consulente della Commissione d’inchiesta Medici nei primi anni Settanta, autore di saggi anche su riviste nazionali, polemista acuto e privo di remore. I suoi scritti li abbiamo raccolti dopo la sua scomparsa in un volume del Mulino, Il pane della giustizia. Sardegna. Giudici, avvocati, criminalità negli anni “caldi” del banditismo, edito nel 2018 per la cura di Manlio Brigaglia e con prefazione di Luigi Berlinguer.
La sua biblioteca – ecco dove volevo arrivare – occupava la grande luminosa stanza di quello che noi figli chiamavamo «lo studio di casa», per distinguerlo dallo studio propriamente professionale, al piano di sotto. Era un fiume di libri, disposti con studiato disordine negli scaffali, spesso gli uni schierati a nascondere gli altri per assenza di spazio, in verticale e in orizzontale. In alto, tanto da richiedere per arrivarci la scala, c’erano i libri della sua gioventù, compresi naturalmente i testi canonici nella formazione dei giovani del regime conservati per ricordo: ma c’erano anche il celeberrimo Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler e il best seller di allora, Il mondo di ieri di Stefan Zweig nell’edizione Mondadori del 1946. In basso, allineati più o meno per materia, trovavi i classici della sociologia (e non solo di quella criminale), delle dottrine politiche, della filosofia del diritto, della politica tra guerra e dopoguerra: Pareto, Mosca, Michels, Weber, Parsons, Sorokin, La storia delle dottrine politiche di Sabine, Merton, Mumford, L’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor, poi Rawls, Ross, moltissimo Bobbio e la collana laterziana diretta da Renato Treves, con i libri chiave della sociologia della giustizia. Meno, ma non del tutto assente, l’economia. In basso campeggiavano, come colonne portanti, i volumi sempre in crescita dell’Enciclopedia del diritto e quelli del Novissimo Digesto Utet. Letteratura non ce n’era, perché quella lo interessava di meno, ed era sparsa semmai negli spazi domestici, fuori dallo studio. Invece c’erano, ben allineate, le collezioni di alcune riviste, tra le quali «Il Ponte» di Calamandrei, «Nord e Sud» di Compagna, dal 1976 la «Rivista trimestrale di diritto pubblico», «Politica del diritto» e soprattutto «Democrazia e Diritto», specie nella serie diretta da Luigi Berlinguer.
Quella biblioteca – lo dico con un certo compiacimento, avendo contratto anch’io, per tara ereditaria, la nobile malattia di possedere libri, – è oggi quasi tutta confluita nei miei scaffali, salvo le opere più strettamente inerenti la professione che sono state giustamente lasciate dov’erano, nello studio legale ora passato di mano a mio fratello, anche lui avvocato.
La biblioteca «di su», come la chiamavamo in famiglia, io la conoscevo a menadito, avendola esplorata in tutti i suoi anfratti sin dagli anni del passaggio dall’adolescenza alla età del liceo, il tempo insomma della prima educazione alla lettura adulta, quando piuttosto che da un progetto organico ti lasci guidare dalle curiosità, e vaghi come una falena da un titolo all’altro, attratto dai colori delle costole, inseguendo piste secondarie, sfogliando a casaccio libri di autori ignoti, in un universo misterioso che non conosci.
I libri che ho descritto si prestavano molto a questo esercizio diciamo così di acculturazione disordinata. Perché mio padre era un lettore «naturale» non solo di libri giuridici o di volumi immediatamente utili alla sua professione ma di tutto quello che suscitava in lui un sia pur minimo interesse. E di interessi ne aveva tanti.
Compagni di strada i libri, dunque. Mi sono accorto riaprendoli di come fossero stati i testimoni silenziosi delle varie stagioni della vita di mio padre: come documentassero in definitiva, se attentamente considerati, il maturare dei suoi interessi, dalla fuoruscita dall’illusione fascista «rivoluzionaria» dei suoi vent’anni alla prima «alfabetizzazione» democratica (non era un approdo scontato per la «generazione degli anni difficili»: e cito un libro per il quale scrisse una bella testimonianza).
Ecco dunque il suo percorso riflesso nella biblioteca: ecco il grande conflitto del dopoguerra tra cattolici e laici (lui era laico, e la libreria si riempì dei «Libri del tempo» Laterza); ecco le prime edizioni Einaudi: Calogero, Galante Garrone, Aldo Garosci, Salvatorelli, Massimo Mila, il cattolico liberale Jemolo, Capitini, Bertrand Russell; ecco la vena radicale di Achille Battaglia nei libri sulla giustizia, e i libri sul divorzio (persino un raro volume sul matrimonio di Léon Blum), e le denunce appassionate di Ernesto Rossi; e le inchieste di Eugenio Scalfari, ma specialmente ecco «Il Mondo» di Pannunzio e le battaglie de «L’Espresso» di Arrigo Benedetti. Ma ritrovo anche i volumetti popolari dell’Universale Economica, quelli a bande colorate (e qui Voltaire, Hume, i classici della politica); e poi, ancora nelle severe collane einaudiane, tutto Gramsci nella prima edizione curata da Platone-Togliatti, Guido Dorso e i grandi meridionalisti, Gobetti, Omodeo (Ragione e civiltà, Laterza, 1948, pagato – vedo – 800 lire). Poi tutto Salvemini (Perché non possiamo non dirci salveminiani scriverà anni dopo mio padre sulla rivista «Ichnusa», da lui stesso fondata assieme ad Antonio Pigliaru). Nel dicembre 1947 acquista Benda, Il tradimento dei chierici; Carlo Antoni, La lotta contro la ragione, edizioni Sansoni del 1942, lo aveva invece comprato nel 1944, rientrando in pratica dal servizio militare, quasi a cercare una boccata di aria fresca dopo l’ubriacatura della letteratura fascista degli anni precedenti. Dei delitti e delle pene nella versione Calamandrei lo comprò nel 1945. Dello stesso anno, novembre, è l’acquisto de La giusta società di Walter Lippmann. Nel settembre 1946 acquistò Fede ragione e civiltà di Harold J. Laski. La Storia d’Italia di Croce (1943) in quello stesso anno, e poi a seguire la lunga serie dei volumi crociani di Laterza. Sturzo entrò in biblioteca qualche anno dopo (1958, La Croce di Costantino), ma i Principi di un ordine sociale di Guido Gonella (1944, Edizioni Civitas Genium, Città del Vaticano) lo comprò nel dicembre 1945 e Umanesimo integrale di Maritain nel 1946. Pure del 1946 (edizioni Utet, 1945) è Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione. Moltissimi i libri dell’editore Parenti, nella collana «Testimonianze del tempo», specie sul rapporto Stato-Chiesa (e qui ancora Salvemini, Jemolo, il vaticanista de «L’Espresso» Carlo Falconi). Uno di questi volumi, a cura di Leopoldo Piccardi (siamo nel 1958) raccoglieva atti e documenti del processo contro il vescovo di Prato (che dal pulpito aveva scacciato una coppia di conviventi tacciandoli di «pubblici concubini»), episodio sul quale mio padre sarebbe intervenuto con un articolo di giornale rischiando egli stesso di essere rinviato a giudizio tanta era stata la durezza della sua denuncia dell’invadenza clericale. La sezione «banditismo» è particolarmente ricca, con volumi anche risalenti all’Ottocento e studi criminologici che fecero epoca (Ferri, Niceforo, Sergi, le inchieste parlamentari sulla questione sarda, Lei-Spano, sino agli atti dell’inchiesta Medici, «letteratura grigia» di diretta provenienza parlamentare).
Potrei continuare a lungo, naturalmente, dissodando e riportando alla luce gli interessi e le passioni di quegli anni e dei successivi. Ma, frugandoci dentro, la biblioteca non è mai solo una raccolta di libri anonima e inespressiva: che parla di chi li ha messi insieme quei volumi, di chi li ha letti e ci ha riflettuto, di chi li ha per così dire «assorbiti» o di chi li ha «rifiutati».
Ma come, appunto, ci ha riflettuto il lettore? Con quale procedimento mentale li ha fatti propri oppure li ha «rifiutati»? Porsi questa domanda ha costituito per me una specie di indagine alla ricerca di mio padre com’era negli anni Cinquanta e Sessanta: conoscere il lettore attraverso i libri che leggeva.
Qui mi hanno soccorso quelli che io chiamo gli indizi o, se volete, le tracce che il lettore lascia a volte sulle pagine. Ci sono, beninteso, lettori che non si rivelano mai, che percorrono il libro non sappiamo se di filato o no ma «in incognito”. Cioè non lo «segnano» (dirò subito cosa vuol dire «segnare»).
Manlio Brigaglia, straordinario intellettuale anche lui e editor felicissimo di una cospicua parte della produzione editoriale sarda degli ultimi decenni (scomparso a 90 anni di età, lasciandosi alle spalle – manco a dirlo – una bellissima biblioteca personale) usava dire che i libri «non si segnano»: «solo chi non sa la fatica di chi li fa, li mette insieme, sceglie la carta e i caratteri, distribuisce i titoli, cura la legatura e la copertina, insomma di chi produce il libro, può compiere il sacrilegio di segnare il libro». Era la sua opinione di «facitore di libri», come con understatement amava definirsi. Non quella di mio padre però (starei per dire per fortuna). A conforto del modo di leggere di mio padre, e contra l’opinione del mio maestro Brigaglia, cito il passaggio di un intervento su «Vie Nuove» di Palmiro Togliatti (23 febbraio 1949) che, rispondendo alla domanda su «come si studia» (come avrebbero dovuto studiare i compagni comunisti di base) scriveva: «Molti pensano che studiare voglia dire leggere. Leggere invece non è sempre studio. Spesso è divertimento. Se poi si aggiunge la preoccupazione, che ho visto espressa, di non far segni sui libri, perché sarebbe indice di mala educazione (che maleducato Carlo Marx, il quale riempiva i suoi libri di segni e segnacci e li faceva persino a pezzi, in quinterni, per poterli utilizzar meglio) (…), temo che il leggere, per molti, sia molto lontano dallo studio».
I libri della biblioteca di cui parlo, almeno quelli più utilizzati, sono disseminati di notazioni a matita (o talvolta persino – orrore! – a penna): sottolineature talvolta in diversi colori, punti esclamativi di dissenso a margine di pagina, punti di domanda, asterischi, annotazioni che rimandano in sintesi ad altri autori o libri evidentemente da confrontare fra loro, vere e proprie piccole frasi annotate a pie’ di pagina. Consensi e dissensi espressi con un segnale. Obiezioni intime e domande a sé stesso e a chi scrive. Una specie di dialogo ininterrotto si intreccia tra il lettore di oggi e l’autore di ieri.
Sfoglio quelle pagine così personalizzate, confesso, con un po’ di emozione. Mi sembra di leggere un libro per così dire a doppio spartito: c’è l’autore, col suo testo stampato in pagina, ma si intravede alle sue spalle l’ombra del suo lettore, a volte adesivo («bravo!», mi capita di leggere scritto a matita; «giusto!») a volte no («che idiozia», «non è vero»). È come se a distanza di mezzo secolo e più io, lettore di seconda mano, ripercorressi le tracce lasciate da mio padre, lettore di prima mano, riscoprendone idee e reazioni. Come se si aprisse insomma tra di noi un dialogo a distanza.
Scrivere «sui» libri non è dunque solo una pratica volta a evidenziare ciò che più ci interessa, magari in vista di una seconda lettura limitata ai capisaldi del testo. O meglio, lo è anche, ma vista dai posteri questa pratica, diciamo così, impropriamente, delle glosse, aggiunge informazioni preziose non più solo sul libro ma anche sul suo lettore.
- Le dediche: dichiarazioni di stima o affetto, a futura memoria
Non fu solo mio padre a coltivare il vizio della sottolineatura. Ho comprato e compro di continuo molti libri in antiquariato, specialmente – dati i miei interessi – volumi di un’epoca compresa tra l’Ottocento e il Novecento su temi che vertono sulle istituzioni e la politica. E mi è spesso capitato di soffermarmi su segni a matita o annotazioni simili a quelle che ho descritto. Talvolta, se conoscevo per caso l’autore della sottolineatura, mi è servito per capire di più la sua personalità e le sue opinioni altrimenti recondite. Quella stessa attenzione del resto ho applicato ai documenti d’archivio, ravvisando magari proprio nel segno a margine la traccia di una valutazione o persino di un dissenso nel lettore. L’abitudine di Mussolini di sottolineare (e commentare) con il fatidico lapis rossoblù consente spesso allo storico di comprendere quali siano i suoi pensieri mentre legge.
Ma voglio spingermi oltre. Passo a un altro elemento, fondamentale: le dediche autografe. Anch’esse «parlano», sebbene non delle reazioni suscitate dalla lettura del testo ma piuttosto delle simpatie, propensioni, a volte strategie personali dell’autore che fa dono ad altri del suo libro. Ma esiste anche, e anzi è statisticamente preponderante, la dedica non d’autore, scritta da chi, senza averlo scritto, dona il libro ad altri.
Un esempio importante nel quale mi sono imbattuto riguarda La jeunesse de Diderot, capolavoro del grande storico Franco Venturi, prima edizione 1939. Venturi la invia a Francesco Saverio Nitti, entrambi riparati a Parigi per sfuggire al fascismo. Il futuro maestro della storiografia torinese è però ancora un giovane studioso alle prime armi (nato nel 1914 ha appena 25 anni). Conosce Nitti? Forse sì, è pur sempre il figlio del celebre storico dell’arte Lionello, uno dei pochi professori che rifiutarono il giuramento al fascismo, anche lui parigino per le medesime ragioni. Comunque ecco la sua dedica, scritta nel volume che ho sotto gli occhi con il pennino buono delle grandi occasioni, calamaio e inchiostro, calligrafia ordinata, un po’ di traverso: «Al presidente Nitti, in devoto omaggio, Franco Venturi». Si noti l’espressione rituale: «in devoto omaggio». È una formula canonica nel costume accademico italiano, ancora in uso (sebbene sempre più raramente) quando l’allievo si rivolge al maestro. Si apprezzi anche la stringatezza tutta torinese della comunicazione: non una parola più del necessario.
Possiedo quel libro di Venturi, che fa parte oggi della mia biblioteca. Sarebbe interessante raccontarne la fortunosa storia: come cioè da Parigi sia ritornato nel dopoguerra a Roma, e, morto Nitti, sia finito tra le sue carte dell’esilio francese accumulate alla rinfusa in una soffitta (assieme a un interessante epistolario oggi conservato nelle Carte Nitti all’Archivio centrale dello Stato). Venduta quella casa (un appartamento borghese ai Parioli), sollecitati invano gli eredi a ritirare le carte sgombrando la soffitta, il nuovo proprietario, per un caso fortuito un mio parente, ebbe l’intelligenza (che Dio lo abbia in gloria) di ricordarsi che io amavo – così mi disse chiamandomi in soccorso e un po’ prendendomi in giro – «le vecchie scartoffie». Ora quell’edizione, con quella dedica, fa bella mostra di sé nella mia biblioteca.
Dediche come atti d’omaggio, dichiarazioni di stima e talvolta di fedeltà, occasioni per aggiungere altro, che il libro di per sé non dice. Non solo Venturi dedicava i suoi libri. Era (è ancora) costume diffuso. Esistono dunque più tipologie della dedica, formulari adottati a seconda del rapporto tra chi dedica e chi riceve il libro, intonazioni più o meno confidenziali, dediche lunghe e lapidarie, fredde e espansive. Si potrebbe, sulla dedica, se già non è stato fatto, aprire un piccolo filone di studi.
Ciò che però mi attrae nelle dediche è cercare di capire il perché e il per come siano state scritte. Risalire da quelle poche frasi al loro autore.
Perché Salvatore De Luca Carnazza, giurista siciliano non ignoto agli studiosi del diritto amministrativo dell’Ottocento, regalò con dedica le sue Istituzioni comunali e provinciali (Catania, Tip. Giacomo Pastore, 1886) proprio al «Sig. Conte Alessandro Moroni»?
Quale era il rapporto tra M. Boghitchévitch, diplomatico serbo figlio di un ministro degli Esteri di quel Paese, professore di diritto internazionale all’università di Belgrado, a lungo incaricato d’affari in varie capitali europee prima della grande guerra, poi al Cairo, e l’ex presidente del Consiglio italiano Nitti, al quale era donata con dedica nel 1925 l’edizione francese de Les causes de la guerre?
Quali legami precedenti inducevano Luigi Rossi, professore emerito nell’Università di Roma e costituzionalista all’epoca più che noto, a inviare nel 1941 i suoi Scritti vari di diritto pubblico appena editi «Alla Maestà del Re e Imperatore Vittorio Emanuele III, devotamente».
A chi (manca un nome del destinatario) dedicava nel 1912 Aldo Goretti («Ricordo di A. Goretti» si legge scritto a penna) il suo sapido e un po’ irriverente librino Lo Statuto del Regno. Commento in cento sonetti? A Giovanni Giolitti, evocato con tanto di Sua Eccellenza e accenti di devozione all’inizio del libro? Oppure, come io penso, quella copia era destinata a qualcun altro?
Cosa spingeva Henri Sée, illustre professore all’Università di Rennes, a dedicare «à Madame Nadine Stehoupak, avec mon hommage le plus sympathique» il suo Evolution et révolution, edito da Flammarion nel 1929 e apprezzato da Lucien Febvre in una breve nota di recensione subito apparsa sulle appena fondate «Annales»? (Qui però alla domanda so almeno in parte rispondere, perché la destinataria del libro e della dedica avrebbe nel 1932 pubblicato a Parigi un dizionario sanscrito-francese – Maisonneuve editrice – insieme a Louis Renou e a Luigia Nitti, figlia del pioniere del socialismo Nullo Baldini e soprattutto nuora, anch’essa in esilio, di Francesco Saverio Nitti: il che tra l’altro spiega la collocazione del libro proprio nella soffitta dei Parioli).
E cosa voleva dire il mio amico e vecchio professore Manlio Brigaglia, nello scrivere la dedica del suo volume del Mulino L’origine dei partiti nell’Europa contemporanea (1985): «A Guido (puntini, puntini…)»? Esiste forse anche la dedica non detta, superflua, allusiva, segreta. Come dire: tu sai perché.
Un caso divertente capitò a Giuseppe Fiori, indimenticato autore della Vita di Antonio Gramsci di Laterza. Messo sull’avviso che la libreria «Impero», allora situata in Corso Rinascimento a Roma, proprio dirimpetto al Palazzo Madama, aveva acquisito un fondo di libri a perdere di Francesco Cossiga, Fiori andò a curiosarci. Era – raccontava – un agglomerato di libri-omaggio ricevuti durante il periodo della presidenza del Senato: spesso stupende edizioni frutto di generosi investimenti nell’editoria da parte di banche e di grandi enti (volumi «rilegati in pelle umana» avrebbe detto qualche spiritoso), più una ridda di libri, anzi più che libri libercoli, frutto della infinita vena letteraria che affligge gli italiani: poesie di improbabili poeti, racconti di improvvisati narratori, cianfrusaglia proveniente da elettori e simpatizzanti ignoti, tutti però corredati di dediche scritte appassionatamente per testimoniare la loro fedeltà eterna al leader. In quel ginepraio di carta Fiori, con il fiuto del giornalista di razza, scovò anche un sobrio volume accademico, di un autore che anch’egli conosceva bene quale parente stretto di Cossiga. E vi lesse la dedica, affettuosa come la può scrivere un parente, elegante e colta come la può concepire un colto professore universitario. Sarebbe stato – pensò Fiori – un libro da conservare, non foss’altro che per l’affetto familiare (a parte il suo valore scientifico). Ma il destinatario distratto o qualche segretaria poco attenta lo avevano confuso con quelli da sbarazzarsene: testimonianza involontaria del destino bizzarro dei libri, di tutti i libri anche di quelli migliori, quando, distaccatisi dall’autore che li ha a lungo covati e amati, vanno da soli per le vie del mondo. E non è detto che non finiscano per imboccare cattive strade.
Infine una dedica molto particolare, che costituisce quasi un discorso intimo.
Tra i libri di mio padre (torno alla biblioteca primigenia) ce n’è uno che gli era particolarmente caro. La dedica d’autore che vi si legge, di Antonio Pigliaru, è il documento commovente (dirò poi perché) di un’amicizia profonda durata quasi trent’anni prima d’essere interrotta dalla morte; ma costituisce insieme, pur nella spigliata leggerezza della scrittura, il programma di lavoro di un uomo che sa d’essere mortalmente ammalato e di non poter contare, se non per scommessa, sul tempo a suo favore. Il libro in questione è La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, prima edizione 1959, editore Giuffrè. Ma qui Pigliaru inventa, come amava fare, un piccolo gioco d’intelligenza che investe entrambe le edizioni del volume: la prima, la sede materiale della dedica tardiva; e la seconda, in procinto di andare in libreria. Il libro «dedicato» è quello già regalato all’amico nel 1959, che mio padre ha restituito fitto di commenti e di sottolineature in vista della stesura della seconda edizione; e che adesso viene di nuovo recapitato al mittente, questa volta con una dedica scritta però quasi dieci anni dopo, nel marzo 1968. Le poche righe, a penna stilografica, a mezza pagina di lato, spiegano l’arcano:
«Caro Giuseppe, scrivere una dedica quasi al…decennale fa una certa impressione, specie a chi, scrivendola, è costretto a ripensare alle condizioni in cui si trovava 10 anni prima. Intanto siamo alla vigilia di una 2a edizione di questo libro: e nella seconda edizione tutti i tuoi segni saranno, per il sì o per il no, tenuti convenientemente presenti. In cambio ti garantisci una copia anche della nuova edizione, ma di nuovo, senza dedica. Mi diverte l’idea di allungare con questo pretesto la mia presenza in questa valle, e insieme di misurare in decenni un’amicizia che, così pare, è più coriacea di te e di me messi insieme. In Sassari, 22. III. 1968. Il tuo Antonio».
Ho scritto «commovente», non a caso. Un anno più tardi, il 27 marzo 1969, l’autore di questa curiosa dedica, sarebbe morto della malattia che ne aveva segnato per anni la tormentata esistenza. Il rapporto intellettuale e affettivo tra i due amici, iniziato nella stagione dei loro vent’anni, non si sarebbe interrotto: sarebbe stato a lungo coltivato da mio padre, in un costante dialogo con gli scritti e con la memoria dell’amico. Quella dedica, io penso, l’avrà riletta tante volte.
- Possedere libri: scrivere il nome sul frontespizio
Segnali, indizi, come sono le sottolineature e le dediche. Ma anche, in altro modo, come possono essere le firme nel frontespizio o nella prima pagina bianca, ad attestare la proprietà del lettore, l’appartenenza del libro a chi lo possiede. Sono messaggi da non trascurare: dicono «questo libro è mio». Spesso riportano di seguito la data esatta dell’acquisizione. Libro «personalizzato» dunque, da conservare, da non dimenticare appena letto, da non perdere di vista, da prestare solo con circospezione e a persone fidate. Talvolta da schedare con bollini e targhette, o sennò da siglare con un timbro personale (esistono sui timbri studi eccellenti). Oppure da personalizzare con eleganti ex libris, essi stessi divenuti oggetto di collezione e di ricerca.
Ma chi saranno poi questi gelosi lettori che sentono il bisogno di firmare i loro libri? Chi sarà stato, per restare alla mia biblioteca, quel Salerno Salvatore di Antonino (così si firmava) che studiava prima della grande guerra sul Codice della giustizia amministrativa, editrice E. Pietrocola, Napoli, 1914? Chi quel Santevecchi (non se ne decifra proprio il nome) che nel 1936, XIV dell’E.F. (così lui stesso, ponendo la data) comprò il Prontuario del commerciante, dell’amministratore e dell’uomo d’affari (Hoepli, 1936), conservandolo quasi nuovo, forse mai utilizzandolo? Chi quel Carlo Calenda (così mi sembra di decifrare) che nell’agosto 1936 acquistò la quattordicesima edizione del libro di Léon Blum La réforme gouvernementale, edito a Parigi da Bernard Grasset? E quel Martini Giuseppe che firmò con bella calligrafia la copia da me acquistata del Gianturco, Istituzioni di diritto civile, Manuali Barbèra, 1899?
Roberto Castaldi sulla copia dei Principii di diritto amministrativo di Orlando, quarta edizione riveduta, Manuali Barbèra 1910, timbro del Tribunale di Roma, sovrappose la sua firma e poi aggiunse: «Roma, venerdì 5-10-1914» (o ’34? La grafia inganna, potrebbe essere che la stessa edizione fosse consultata vent’anni dopo? Improbabile, date le edizioni successive, una ad esempio già nel 1914). Come sarà arrivato quel libro nelle sue mani? A quale scopo Castaldi lo avrà letto?
Non basta, Ho un’altra copia della stessa quarta edizione riveduta dello stesso libro, medesima collana sempre 1910, dove scritto a matita leggo: «Avv. Proc. Barello Roberto di Graziano Vercellese, via Galileo Ferraris n. 11c, Vercelli». Concorrenti entrambi a qualche concorso? Probabile. Nella copia firmata Barello, sobriamente sottolineata, la parte più fitta di segni è il paragrafo sul sottoprefetto. Forse era quello il posto fisso bramato da quel giovane lettore.
E ancora. È possibile che il Carlo Spantigati che possedette la mia copia de La politica annonaria dell’Italia durante la grande guerra, autore Umberto Ricci, Laterza, 1939, sia quello stesso nei tardi anni Trenta dirigente della Confederazione fascista dei commercianti?
Non una firma ma un biglietto da visita un po’ ingiallito dal tempo, ad accompagnare forse l’invio in omaggio, ho trovato nell’edizione francese dell’Essai de sociologie di Luigi Sturzo, tradotto dall’italiano da Jules Bertrand nella collana «Cahiers de la nouvelle journée» dell’editrice Librairie Bloud&Gay, Parigi 1935. Leggo: «don Luigi Sturzo - 32, Chepstow Villas, London - W II». Sturzo nel ’35 era a Londra, esule per la persecuzione fascista.
- Relitti casuali, impigliati nelle pagine
Come i fantasmi dei morti si aggirano la notte nell’immenso archivio teatro del capolavoro di José Saramago Tutti i nomi, così una folla di anonimi lettori prende corpo anche per un solo momento in cerca di una identità perduta attraverso questi casuali messaggi nella bottiglia. I libri, si sa, traghettano nel tempo. Disancorati dalle loro originarie collocazioni nelle biblioteche private che li accolsero (quanto potrebbero dirci i cataloghi di quelle biblioteche, se potessimo averle in mano..), galleggiano a volta a lungo e pigramente nelle offerte delle librerie antiquarie o magari espongono le loro copertine in piazza nei mercatini delle bancarelle, come sospinti casualmente verso altri lettori che nulla o quasi sapranno mai dei primi. La catena dei lettori la si potrebbe ricostruire dal registro dei prestiti di una biblioteca pubblica, ma non per le raccolte private. Qui domina sovrano il caso.
Tracce casuali appunto finiscono nel libro e ne divengono negli anni una componente, quasi un corredo. Anche loro «parlano»; frammentariamente forse, ma qualcosa rivelano. Come diceva quella vecchia canzone? «Il mio piccino, in un mio vecchio libro di latino, ha trovato – indovina – una pansè».
Confesso che non colloco mai un nuovo libro acquistato in libreria antiquaria o da un libraio di piazza senza cercarvi prima se vi sia racchiuso tra le pagine qualche segnale di chi lo ha posseduto. Foglietti anonimi con indirizzi; un conto della spesa dimenticato; un appunto per lo più incomprensibile annotato a margine di pagina; un numero di telefono; una cartolina usata da segnalibro con nomi sconosciuti e frasi di saluto convenzionali, dietro a panorami d’altri tempi. Lacerti di passato. Briciole di vite consumate, chissà dove e di chi. La République romaine di Gustave Bloch, professore alla Sorbona, mi restituisce due biglietti da visita. Uno rivela semplicemente un nome, Andon Vahan Keutchéyan. Neppure la prodigiosa memoria di Google riesce a individuarlo. L’altro al nome francese, Jules Belleudy, aggiunge tre informazioni: «Ancien Préfet, trésorier payeur général honoraire», residente a Nice, Avenue Maréchal-Foch, 35. Forse di lui – chissà – potrei scoprire qualcosa di più frugando negli annuari dell’amministrazione francese.
Nelle Istituzioni di diritto costituzionale di Errico Presutti, seconda edizione (Napoli, Lorenzo Alvano Libraio-Editore, 1920), interamente sottolineato in rosso e blu come da chi lo abbia intensamente studiato, trovo un foglietto a matita con l’elenco in 13 punti delle funzioni del Re e del potere esecutivo. Scoperta quasi prevedibile, verrebbe da dire. Ma poi in un libro degli anni Trenta, copertina rigida, saggistica, ecco tra le pagine sbucare un foglietto sottile, con l’intestazione di un grande albergo romano. A matita, con calligrafia femminile, questa breve frase: «Ore 11 nella mia stanza. Ricorda, il numero 16. Ti aspetto».
Lui, distratto, l’avrà nascosto tra le pagine del libro. Come sarà andato il rendez-vous? Galeotto fu il libro e chi lo scrisse.
Guido Melis
[1] In L’arte della ricerca. Fonti, libri, biblioteche. Studi offerti ad Alberto Petrucciani, Milano, Feltrinelli, 2021.